SOPRA L'ERBA, IL CIELO ALTISSIMO di Fabio Elia (narrativa)
NARRATIVA
Fabio Elia
Sopra l’erba, il cielo
altissimo
Jasnaja Poljana.
Quante volte avevo sentito quel nome.
Stavolta però facevo sul serio, volevo vedere se esisteva
davvero, quel posto di cui avevo letto tanto, che si diceva essere incorniciato
di alberi giganti almeno quanto colui che li aveva costeggiati giornalmente con
la sua andatura lenta, quel posto vestito da un cielo altissimo come quello
contemplato dal principe Andrej caduto ad Austerlitz.
Io e la mia ragazza, Eleonora, eravamo andati a convivere da
poco, in Italia, grazie a un lavoro part-time che ci regalava l’illusione di un
briciolo di indipendenza.
Che belli i primi giorni. Pareva che fuori dalla nostra tana
regnasse un caos sordo, che avremmo potuto gridare aiuto per giorni senza che
là fuori nessuno ci avrebbe udito, perché le finestre di casa erano muri
eccezionali che non si desiderava scavalcare; ciò cui aspiravamo era una
solitudine binaria, ricercata e perciò preziosa, un al di qua in cui perfino
Pink, la rockstar di Waters, sarebbe impazzito felicemente, senza rancore verso
la mamma né verso la scuola.
Le nostre, di mamme, ci avevano salutato senza tenerci
avvinghiati forzosamente al loro, al nostro vecchio appartamento; e la scuola
ci aveva insegnato a leggere i grandi libri, perché un classico anche se non lo
si capisce a fondo o se annoia resta, e insegna a sua volta, durante la vita di
chi ne ha fruito, a modo tutto suo, a volte discretamente, influenzando il
grado critico che ci si fa di certe situazioni o certi atteggiamenti, altre più
stentoreo, ponendo innanzi a noi suoi remoti lettori personaggi enormi, che
malinconici ci esortano a farli rivivere, ché tanto hanno ancora da raccontare,
tanta passione da insufflare negli animi di chi li incontra, che dimenticarli
sarebbe come rinnegare il proprio diritto all’emozione. Che qualcuno chiama
anzi dovere.
Da Mosca prendemmo un autobus diretto a Tuzla; fu complicato
farsi capire, ma alla fine dietro qualche risolino un po’ così accettarono i
nostri biglietti e ci fecero salire. Sorridemmo insieme ad altri passeggeri,
anche se non capii mai per quale motivo. L’autobus partì, Eleonora disse Tuzla ad alta voce e un viso o due
annuirono, e la strada subito si allargò e si fece vuoto intorno, correvamo
verso Tolstoj.
Durante il tragitto pensieri fantastici fioccavano su noi
due, che nel mondo reale eravamo stati investiti da una locomotiva di pazzia
maestra, e ora lì, in quel bus surreale, la locomotiva era diventata portaerei;
quel momento di sole, mentre ci allontanavamo dalla terza Roma che con la sua
aquila bicefala ci aveva dato modo di accertarci che la piscina di Stalin
davvero non esisteva più, di volare sull’Arbat senza scopa ma su di un azzimato
tappeto matrimoniale, e di vedere le spaziali opere d’arte sotterranee figlie
del sogno di Kaganovič, quel momento era come fossimo sul divano di casa
nostra, un buco di trenta metri quadri ricamato di neve fradicia, il nostro
sottosuolo, là dove potevamo coccolare i nostri sentimenti sinceri senza paura
di essere additati, un posto dal quale riemergere avrebbe significato per la
nostra memoria essere accecata dalle convenzioni che come cani da caccia ci
braccavano annusando con gran piacere l’odore della preda.
Tuzla non era poi così distante, ci arrivammo in poco tempo.
Non avevamo soldi, come al solito, e così ci mettemmo alla ricerca di uno
sportello bancomat. Vari tentativi ci condussero all’interno di un’università,
dove alcuni studenti ci spiegarono come far funzionare uno sportello per il
prelievo. L’odore di università è uguale in tutte le parti del mondo.
Guardai Eleonora, era radiosa, in Russia voleva venirci da
quando era bambina, perché la Russia la attirava in modo misterioso; l’animo
russo non si può spiegare, d’altronde, ma si vede e si sente, in certi luoghi
che paiono usciti dalla pagina di un Conrad redento, luoghi che hanno smesso il
selvaggio per mantenere una certa sacralità, e intorno ai quali non aleggia che
il rispetto, e non danza che il vento.
Posti come la Chiesa dell’Intercessione sul Nerl’, sola in
mezzo all’erba, carezzata da poche piante e da un laghetto. Ci si arriva
percorrendo un sentierino disegnato dentro un prato, con il blu delle cipolle
di Bogoljubovo appena alle spalle.
Prelevammo alcuni rubli e tornammo sulla strada principale,
dove avremmo dovuto prendere il pullman per Jasnaja Poljana. Col mio cappellino
storto e il mio zainetto semivuoto. Leggemmo gli orari sulla banchina. Il
cirillico Eleonora lo capiva, e la lingua russa la masticava, ché aveva da poco
iniziata a studiarla all’università. Mi piaceva da matti farmi insegnare
quell’alfabeto nuovo e provare a decifrare le parole sulle insegne dei negozi e
sui cartelloni pubblicitari.
Qualche minuto e un pulmino ci caricò.
Potevamo dirci vicini, poiché una signora anzianotta dai
tratti gentili e dalla robusta cadenza russa ci disse che ci avrebbe indicato
lei dove scendere; ce lo disse in quell’inglese che si comprende al volo
perché, se anche non coadiuvato da un buon lessico, rapisce per lo sforzo
profuso dall’interlocutore. Lo si nota dai suoi occhi: se vuole comunicare gli
si ingrossano e corrono all’impazzata.
La vecchietta ripeté varie volte il nome di Tolstoj, per
sincerarsi che volessimo visitare il suo tempio: ogni volta che lo pronunciava
facevamo sì con la testa al ritmo incandescente delle truppe napoleoniche messe
in fuga dall’incendio di Mosca. Ordine del conte Rostopchin, dicono gli
storici; secondo Tolstoj, invece, Mosca bruciò perché così doveva andare. Una
città di legno invasa dalla negligenza di truppe nemiche va a fuoco.
Ed eravamo sul viale alberato, cioè una stradina
fiancheggiata da una serie infinita di betulle, una striscia di cui non si
indovina il termine, in cui infilarsi significa immergervisi.
Camminammo attraverso prati, superammo diverse costruzioni e
poi laggiù in fondo ci accorgemmo che doveva essere lei, la residenza estiva
del conte apostata, con la sua camicia bianca e la sua barba azzurra, laggiù
era stata istituita una scuola la cui retta era pari a zero, destinata ai figli
di contadini poveri e senza alcun mezzo culturale, contro ogni convenzione, al
di là di ogni ordine prestabilito, sotto colonne di meli piantati da Lev in
persona. Laggiù amava rifocillarsi e rilassarsi la penna superba dell’uomo in
grado di rinnegare l’importanza di due tra i romanzi più grandi mai scritti (da
lui stesso) nella storia della letteratura.
Non ci restava che visitare Jasnaja Poljana ascoltando ciò
che i libri in passato ci avevano detto e che i nostri cuori avevano ora da
sussurrarci.
Arrivammo al cancello d’ingresso per mano, innamorati,
entusiasti, con il pieno di fotografie già scattate durante il tragitto che
avrei, da allora, sempre ricordato così bene.
Tornati in Italia bisognava tornare a lavorare e a scrivere
reclami per bollette della luce ingiustamente troppo salate; ma avremmo anche
avuto il dovere morale di tappezzare le nostre pareti di immagini e di riempire
le nostre giornate di parole scritte su carta da ingegni che quelle parole le
avevano ponderate, perché questo significa imbattersi in un grande libro:
incontrare la fatica di un altro.
The Tolstoy House is closed
for cleaning last Tuesday of each month.
Ed era proprio l’ultimo martedì di luglio. All’inizio restai
incredulo, chiesi conferma alla mia ragazza che a testa bassa annuì.
Arrivato dall’Italia apposta per fare visita a Lev Tolstoj –
per fare visita a madre Russia, per la verità – eccomi là, di sasso. Dapprima
fu smarrimento, poi uno sconforto abbozzato, dopodiché subentrò la rabbia,
imprecazioni a denti e pugni stretti, e infine tornò lo sconforto, stavolta più
profondo e letale. Dio, che amarezza. Quanto ero stato leggero a non
informarmi. Entrammo comunque, naturalmente. Si poteva fare il giro di tutta la
tenuta e vedere la casa, quantomeno, da fuori.
Un bel laghetto ci accolse, sulla nostra sinistra, dentro cui
sbattevano le nubi di un cielo mesto, ma alto – così doveva essere il cielo, a
Jasnaja Poljana: alto.
Eleonora mi abbracciò più volte, dicendomi che nonostante
tutto era un momento unico, dovevamo godercelo appieno. Aveva ragione.
Proseguimmo, vedemmo la casa dello scrittore più altri
piccoli edifici, che nemmeno ricordo cosa fossero. Passammo tra alberi da
frutta, in mezzo a panche, sedie, fiori.
Sinché notai un’indicazione: Lev Tolstoj’s grave. Scorato com’ero, mi era passata di mente la
sua tomba. Voglio dire, non è che sapessi con certezza che lui fosse sepolto
lì, ma lo potevo immaginare. In ogni modo, leggere quella frase piantata per
terra con tanto di freccia direzionale mi riempì di gioia.
Tenendoci per mano e scambiandoci sguardi colmi di
un’aspettativa (che non si sa mai se sia bene o male riposta) simile a quella
formatasi nel principe Andrej alla vista del sottile braccio nudo di Nataša
durante il grande ballo di corte, prendemmo il sentierino che entrava nel fitto
di un boschetto.
Raggi di luce a sprazzi cadevano fra le fronde, era un
percorso verde, umido, mansueto. Non c’eravamo che noi. E io che mi immaginavo
chissà quale folla. Forse le persone verificavano gli orari della tenuta prima
di attraversare migliaia di chilometri.
A un certo punto Eleonora notò un’escrescenza affiorare
dall’erba. Come un brandello di suolo rialzato, ricoperto di ciuffi verdi
uguali a quelli tutt’intorno. A forma di rettangolo, suppergiù. A forma di
bara. Davvero era lì, che riposava il grande maestro?
Nessuna opera muraria, nessuna iscrizione funebre, nessuna
lapide. Soltanto erba. In quel preciso istante, il fatto di non essermi
informato a tal riguardo in precedenza mi sembrò una cosa bellissima. Ero
contento che fosse stata una sorpresa. Contento di aver fatto quel percorso con
l’eccitazione a mille in cerca dello scrittore che aveva radicalmente cambiato
la mia visione del mondo e della storia.
Restammo lì seduti per un po’, scattammo un paio di
fotografie con una macchina assai scadente, baciai l’erba e ce ne andammo.
E voglio scommettere che quell’ultimo martedì di luglio la
casa di Tolstoj fu veramente tirata a lucido.
FABIO ELIA
Fabio Elia ha sempre amato leggere, passando giornate intere in compagnia dei personaggi della
grande letteratura.
Si è laureato in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Torino. Un'esperienza irripetibile è stata il soggiorno di studio Erasmus a Varsavia: lì ha scritto il suo primo libro, intitolato Warszawa, che è risultato vincitore nella sezione Romanzo inedito al concorso «Giovane Holden 2010».
Grazie Fabio per il tuo scritto lieve ma toccante, e anche ad Eleonora, che ha ribadito una cosa nota, ma che spesso dimentichiamo: che le contrarietà si affrontano con un sorriso.
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