Promemoria antidepressivo su tabacco e scrittura di Alessandro Iovinelli (I e II parte) (poesia)
POESIA
Promemoria antidepressivo su
tabacco e scrittura
di Alessandro Iovinelli
i parte
I
depressi fumano tanto. Troppo.
È
risaputo. Se sono disabili,
poi
è ancora peggio. Quando non funziona
più
nulla e tutto si disfa nel corpo,
non
vale alcun deterrente al tabagismo:
nient’altro
resta per distrarsi un poco
nel
vuoto dall’infermità.
Una
passeggiata? È escluso.
Una
sera al cinema? Non ci si può arrivare.
Cena
al ristorante? Idem come sopra.
La
nostra compagnia è faticosa,
per
quanto si finga di ignorare il problema
c’è
sempre una porta stretta, spunta uno scalino,
la
strada si fa in salita e deve spingere
chi
voleva offrire il favore
di
un minimo di socialità.
Il
coltello non taglia, con il cucchiaio
ci
si sbrodola come un pargolo
e
per montare in auto occorre la pazienza
d’un
elefante e la forza di una puleggia.
Invece
se si resta a casa,
non
v’è alcun disturbo per gli altri
–
a patto che non ci sia nessuno.
Finché
le dita si muovono
viene
voglia di digitare,
ma
prima o poi giunge l’intoppo
e
risuona un’idea nella testa: per chi?
Ti
domandi: per cosa?
Che
senso ha nel deserto
continuare
l’eloquio e la scrittura?
Ma
pronta arriva la replica:
non
fu sempre così? Certo, lo è stato.
È
già toccato
agli
altri che abitarono
questo
o un altro luogo, prima
di
svanire nella polvere, mentre la muffa
di
uno scaffale in cantina e
il
giallore della carta macchiata di blu
condannavano
all’oblio
tutti
i tomi delle biblioteche.
Non
li spaventò l’arrivo dei barbari,
la
fine del mondo o l’estinzione
della
lingua materna:
a
chi teneva lo stilo ancora in mano
e
lanciò nel mare
il
suo messaggio in bottiglia
bastava
l’atto in sé e la parola.
Per
sperare ancora nel futuro
non
resta che il caso capriccioso,
di
tutte le trovate la più formidabile.
Si
chiama principio di non località:
nessuno
conosce se qualcosa
sopravvive
di qui a cento o mille anni,
né
di chi saranno gli occhi a leggere
o
guardare, forse a capire.
È
un problema che non ci riguarda:
non
l’hai capito?
Ora
ti deve bastare almeno una lettrice
che
sorrida alla tua novella
e
sfogli la pagina, tuttora curiosa
di
apprendere la fine della storia.
Intanto
spira in alto il fumo
di
una sigaretta che arde,
arricciola
nell’aria una figura
poi
fa un saluto e se ne va.
ii parte
POESIA
A tempo scaduto
di Alessandro Iovinelli
La caduta
I
primi a cadere furono gli angeli ribelli,
li
guidava di tutti il più bello, il più luminoso,
nonché
il preferito dal creatore
–
ma forse questa è un’invenzione
degli
umani per natura inaffidabili.
Ma
perché si rivoltarono a Dio
non
l’ho mai capito. Si dice
che
volessero scalzarlo dal cielo
e
comandare loro
–
belli, sì, ma ingrati fin dall’inizio,
mi
sembra una ricostruzione un po’ di parte.
Comunque,
una volta precipitati negli inferi,
le
ali di bitume e il muso da ratti,
i
malefici chirotteri riconobbero il leader
che
così divenne per sempre l’eponimo avversario
inviso
quanto temuto dalle forze del bene
cui
fornì il migliore degli alibi per giustificare
i
numerosi scacchi e i torti subiti dagli innocenti
bistrattati
dal caso volubile e il fato maligno.
Non
meglio andò ai Titani
che
diedero l’assalto al cielo
prima
di essere da Zeus e gli altri dei
respinti
tra le ombre eterne del Tartaro
in
attesa di una postuma rivalutazione
di
quelle che solo i poeti possono donare
a
chi ha perso ma è da esempio
a
quelli che verranno, né sapranno mai
cos’è
la resa, l’abbandono e la rassegnazione.
Cadde
Fetonte, il più imprudente dei figli
che
non s’era ribellato, ma voleva
solo
provare la sua origine divina.
È
caduto pure Icaro con le sue ali ceree
per
troppo ottimismo e autostima,
il
primo martire dell’insofferenza ai padri
cui
l’ascesa in cielo si chiuse con un tonfo
oltre
la piatta superficie del mare.
Volontaria
fu la caduta di Saffo
dalla
rupe di Leucade, dove ai piedi della roccia
si
schiantò l’orrido salto di chi cantò
senza
eguali gli effetti dell’amore
mentre
parla e ride come una divinità.
Il
fato crudele non le aveva sorriso
e
disperata restò la lunga attesa
per
un responso favorevole
che
rischiarasse la terra con il raggio di luce
di
una primavera senza termine alcuno.
Ogni
esistenza è una caduta, così disse Platone:
mai
prevale il cavallo bianco sul nero e l’auriga
non
può frenare la corsa del cocchio umano
verso
la meta del suo amore – benché gli sfugga,
forse
proprio perché gli scappa nello spaziotempo
ricreandosi
nella memoria al prossimo giro della lancetta.
Ma
ogni caduta ha una fine, lo si capisce
poco
prima dell’arrivo, che non coincide
con
la meta, né con l’obiettivo,
a
prescindere dal giudizio finale
di
saggezza retrospettiva.
La
verità della fine
è
inutile quanto tautologica:
la
vita era la vita, la morte è la morte.
Non
c’è alcuna logica,
chi
esce di scena non ha altra sorte.
In mancanza di un bilancio finale
Non
rimpiango i giorni in cui camminavo,
ma
tutte le volte che ho sognato di volare
tenendomi
appeso a un foglio di carta,
dove
l’inchiostro disegnava paesaggi
dell’anima
e della memoria.
Con
me c’era il lalleggio di un infante,
il
lagno di un cagnetto claustrofobico,
le
note alte intonate da una voce
limpida
e cristallina
che
alitava sul lobo dell’orecchio,
il
pruno dai fiori bianchi coi petali
di
effimera bellezza,
benché
di un unico splendore
contro
il cielo anche nella sera.
La
vita è passata, pure l’ultima sua stagione.
Non
c’è più tempo nemmeno per il disincanto,
il
lascito o la ritrattazione.
Nessuno
più legge, nessuno ricorderà:
non
c’è niente, nemmeno la poesia, nell’aldilà.
Finale di partita
Di
rimorsi la coscienza non ne vuole
sapere,
mentre unico è il rimpianto:
non
essersi fermato nella terra di nessuno,
dove
i raggi di sole schiarivano innocenti
un
profilo d’angelo senza colpa.
È
tempo di rifare il conto delle ore,
quando
scambiai per la primavera
il
rossore delle foglie caduche
e
per un radioso mezzogiorno
l’ultima
vampa prima dell’oscurità.
Il
saggio non tradisce la parola data
in
nome di una fede che sbagliò
a
credere nel vano e nell’incerto
disconoscendo
la lezione appresa,
quel
che il fato m’aveva già offerto,
perché
all’esempio seguisse il mio premio.
Da
quando l’orologio s’è fermato
sono
uscito dal mondo della vita,
né
ormai la sua voce da lontano
risponde
agli appelli e ai vani richiami
di
chi si ritrova ora i conti in perdita.
Sì,
prima o poi tocca di uscire a tutti,
fossimo
papaveri o rossi frutti.
Resta
solo un motto per il finale
di
partita, una verità banale.
Ma
chi la ricorda? Nemmeno tu:
a
tempo scaduto rien ne va plus.
ALESSANDRO IOVINELLI
È poeta, narratore, critico e regista teatrale.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi.
Stupende come tutte le tue parole.TvbFederica Lorusso
RispondiEliminaGià avevo recensito una tua raccolta di poesie, intense e magiche nella forma e nei contenuti; ora leggendo questi nuovi testi riscopro il potere della bellezza e del senso che trionfa sul vuoto assordante! Grande dono è quello di saper parlare all’animo in ascolto! 👏👏👏❤️❤️❤️
RispondiEliminaCome mi ritrovo in questi 'riccioli di fumo! i miei genitori fumavano anche a letto e per non tossire spesso noi spalancavamo molte finestre della casa ma ... erano di una presenza e di una bellezza incredibile, fumosi ma presenti, attenti alle nostre attività giornaliere, sempre pronti a proporre nuove cose che riguardassero, oltre la cultura, il divertimento e l'intrattenimento!! Alla fine che resta, il fumo se ne è andato, da tempo anche loro, ma fondamentale è il ricordo delle emozioni, della sensorialità e, diradata la nebbia ci sono 4 fari che sempre sorridono!! Grazie Alessandro per aver riportato in superfice tanta bellezza !!
EliminaGabriella Minarini
Una delle cose più belle mai lette. Forse la più bella scritta da Alessandro Iovinelli. Solo verità e bellezza, come sempre nella grande poesia.
RispondiElimina"Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta,ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo. Chi conosce l’impeto della tua ira, e il tuo sdegno, con il timore a te dovuto?"
RispondiEliminaQuesto è il Salmo 89. Da millenni si è stati sempre un tantinello incazzati con quel Dio-che-sta-là-dice-dice-e-non-fa.
Sandro, tu non parli di lui nei suoi versi, accenno solo, se ho capito bene, in "Finale di partita", del "...saggio [che] non tradisce la parola data in nome di una fede che sbagliò e credere nel vano e nell'incerto".
E io che invece ci credo in Dio, a leggere te mi sento di vivere (oltre che nell'incerto), nel vano sogno di un dio-che-ci-salva-dal-non-senso. E intigno a dargli fiducia perché, come scrivi tu "basta l'atto in sé e la parola".
La tua poesia, con grande pudicizia e nitore, dice il limite di te.
Angoscia e non senso toccano a tutti, ma per qualcuno è di più - già.
Ciascuno pensa di aver raggiunto il limite, cioè il punto che si dice basta, qualcuno di più - già.
Sul tuo limite tu fai una capriola e scrivi, senza alcun compiacimento, con nuove parole i versi di Rilke:
"E noi, che pensiamo alla felicità
come a qualcosa che sale, sentiremmo
l'emozione, che quasi ci sgomenta,
di quando una cosa ch'è felice, cade".
Sandro, tu sai chi sono i profeti? Quelli che capiscono cosa accade e lo raccontano con pudicizia e nitore, senza paura. Facendo le capriole sul non senso alla faccia di noi benpensanti.
Tu sei un poeta, e un profeta.
Gabriella Urbani
Intensi e suggestivi questi versi nello svelare la drammatica e dura realtà della vita umana nei suoi legami indissolubili col tempo, l'amore, la malattia, la morte! Che senso ha continuare a scrivere quando la malattia ci ha fatto "uscire dalla vita"? La parola scritta ci salverà dall'oblio o è destinata ad offrire solo un sollievo momentaneo che svanirà come il fumo di una sigaretta? Il destino degli esseri viventi secondo il poeta sembra essere la "resa, l'abbandono, la rassegnazione", la caduta finale ci condurrà all'unica meta possibile anche se non coincidente con l'obiettivo che ci eravamo prefissati: la morte! Persino l'amore non ricorda e non ci offre nessuna ancora di salvezza! Ma caro Alessandro io credo che fintanto che ci sarà un lettore la poesia è l'unica illusione di immortalità destinata a "vincere di mille secoli il silenzio "! I tuoi splendidi versi ne sono la tangibile testimonianza!
RispondiEliminaIolanda Capotondi