Il bestiario che era in te (narrativa) ~ di Luigi Ananìa - TeclaXXI
NARRATIVA
Luigi Ananìa
Il bestiario che era in te
Nello stradone affollato del ghetto
all’ora dell’aperitivo apparve una matta, un mendicante, un africano a torso
nudo e una sera tu, fata acrobata che roteavi tra lo stradone e l’aria. All’entrata del ghetto con le braccia alzate
e un piede sollevato da terra incominciavi a roteare tra la folla fino al
termine dello stradone; poi ti fermavi e in posizione obliqua guardavi le
persone che camminavano assorte nei propri pensieri. Quando qualcuno ti
rivolgeva la parola, ti risollevavi e andavi al bar, dove un’onda di sentimenti
giovani e vetusti innalzava il tono dei discorsi; i giovani ti bramavano e i
vecchi s’innamoravano, guardandoti sorridere e fumare. Sorridevi a tutti e un
giorno una vecchia mendicante incattivita, prendendo i tuoi sorrisi come una
presa in giro, cominciò a insultarti in croato e tu sorridendo le dicesti in
inglese «the same to you». Quando
ormai era notte, ti alzavi agitata dall’alcol e ballavi con un cameriere
svelandogli d’improvviso la bellezza. Facevi perdere il controllo agli uomini e
senza saperlo sconvolgevi l’equilibrio dei sensi e alimentavi flussi
d’imbarazzo e di sudore; di te percepivano la sensualità delle forme, ma non
l’inquietudine, l’allegria mista alla disperazione, l’esuberanza che ti
trasformava in altre donne e in altre creature.
La notte passeggiavi fumando e, quando ti dicevo
di fumare alla finestra, tu mi rispondevi che ti piaceva vagare come una gatta
al buio fra i barboni, i ladri e i nottambuli. Indossavi vestiti estivi anche
d’inverno e sembrava che non toccassi terra e fossi a mezz’aria fra i sampietrini
e il cielo. Una notte ti vidi sbucare da un vicolo e quando i nostri sguardi
s’incrociarono mi stringesti con la gioia di afferrare qualcosa di
terrestre. Ma non eri soltanto un’attraente
creatura della notte, eri un insieme di varie tipologie viventi. Venivi dall’America
e nelle tue peregrinazioni fra New York, Washington, il Brasile, l’Africa e
Torino avevi appreso l’importanza del ridere per non morire. In volo fra un
continente e l’altro ascoltavi voci, coniavi idiomi, collezionavi scherzi, ideavi
personaggi e imitazioni, diventando una splendida buffona le cui risate pazze
di allegria e di disperazione risuonavano in giro per il mondo. Imitavi animali
e persone e ridevi mentre sulle onde sonore delle tue risate svaniva il senso
delle domande senza senso ed echeggiavano le risate degli altri; vedendo gli
altri ridere, ti sentivi parte del mondo come se con uno scherzo avessi creato
una società istantanea immune da quel senso di abbandono, che da bambina ti
spinse ad arrivare al centesimo piano di un grattacielo per abbracciare tuo
padre. Poi, da donna affermata nella società della cooperazione internazionale
continuasti a scherzare con chiunque e intanto ridevi e imitavi un’infinità di
esseri viventi. Imitavi il coniglio nel
repentino movimento del naso, mimavi il passo del topo nelle corse e nelle fermate fra i semafori di Washington, riproducevi la voce angosciata di una donna tropicale abbandonata nella
tundra, diventavi una gallina facendo
della bocca e del naso un becco e della
chioma una cresta svolazzante e nella nostra camera del ghetto saltavi da uno
specchio all’altro in un gioco di metamorfosi e di
duplicazioni, creando un’immaginaria folla di donne, chi silenziose,
chi traballanti e instabili per improvvisi scrosci di risate. Tutte queste
imitazioni e installazioni viventi si mischiavano ai tuoi infiniti modi di
essere sempre al confine fra la realtà e l’invenzione. A volte nella mia mente tornavi la ragazza
che camminava su una strada di New York
verso la piazza dell’ università, una piazza frequentata da comici, filosofi, vagabondi e da te,
economista e matematica per natura; una strada costeggiata dalle case e dal
cielo, quella stessa strada che attraversavo anch’io e che nel corso degli anni immaginai come un
tratto di spazio e di tempo che riattraversammo insieme in un continuo andirivieni di passato e
presente . Altre volte, al rientro dalle tue missioni in Africa, tornavi la donna che incontrai un giorno al ghetto,
una donna con il viso gonfio di alcol
che mi guardava con gli occhi ingranditi dalla paura e dalla speranza; poi nel
giro di una settimana diventavi una ragazza
fantastica che sfiorava i vicoli del centro come se fossi una madonna
uscita da una delle chiese di Roma; il gonfiore lasciava spazio alla grazia e con il passare dei giorni i tuoi occhi si
aprivano su un universo di ilarità, ansia e sorpresa, uno
spazio sconfinato fra l’essere e il non
essere. D’altronde, l’impressione di non essere o di essere sul precipizio del
nulla ti aveva sempre sollecitato a camminare alla ricerca di senso e, come da bambina,
ti sentivi trasparente, adesso da funzionaria della cooperazione ti
immedesimavi in quei progetti di macroeconomia, che erano programmati per non
venire mai alla luce. Una notte mi chiamasti ebbra di alcol e di dolore da un
paese dell’Africa equatoriale, dicendo che ti sentivi come quel progetto che ti
avevano affidato per portare benessere a una popolazione, un programma
predestinato a dissolversi nel momento stesso del concepimento. Alla paura di
non essere concepita dallo sguardo degli altri sfuggivi attingendo alla riserva
di scherzi, imitazioni e battute che avevi immagazzinato in volo fra un
continente e l’altro; allora ti accovacciavi a terra con la schiena in su e il
muso in basso con l’espressione impaurita di una grande nutria che guardava il
fiume in piena dall’arcata di un ponte; poi ti scuotevi e imitavi uno di quegli
scoiattoli presenti nei grandi parchi
americani e nei giardini del tuo quartiere a Washington; ne mimavi il passo agile ed elegante, il portamento a due e a quattro zampe, il modo di alzarsi in
posizione eretta e di portarsi una ghianda
al petto, prima di rosicchiarla con
un’espressione di sfida; quando poi non sentivi altro che silenzio, emettevi un
sibilo lungo e disponevi due dita davanti le labbra ritratte sui denti, assumendo la smorfia di un insetto avido di
linfa e di sangue. Gli animali che riuscivi a evocare erano tanti e ogni volta
ce ne erano di nuovi; un giorno di luglio ti immergesti in una fontana e gonfiasti
le guance e il vestito trasformandoti in un pesce palla che apriva la bocca
sulla superficie, prima di deflagrare in una risata che agitava le acque. Tutte
queste imitazioni alternate a battute estemporanee ti apportavano dapprima
gioia e poi un senso di grande fatica, come se stessi lavorando per non
scomparire; dopo circa un’ora ti sentivi sfinita e nonostante tutto quel lavoro
sentivi di non esistere e dicevi «l’ho fatta io quella battuta, l’ho detta
io quella frase». Quando ascoltavi le tue frasi dette dagli altri ti
sentivi in un marasma e ti sembrava di scivolare sul fondo buio di un abisso; allora
cercavi il tuo amante camminando in equilibrio su una corda invisibile al di
sopra della strada oppure in sella della tua bicicletta su un percorso distinto
dal resto del mondo; quando lo incontravi gli sorridevi e piegando il viso da
un lato allineavi le labbra a forma di cuore e lo baciavi. Al tramonto fra i
tetti rossi del ghetto ci scambiavi parole, scherzi e promesse e stringendolo
ristabilivi il contatto non solo con lui ma con il mondo; andavi di corsa alla
finestra, ti annodavi i capelli verso l’alto, gonfiavi il seno come una
prospera cantante lirica e intonavi un’aria che si diffondeva per le strade del
ghetto. Ma a volte ti sentivi distante come se quella lontananza dal mondo
orbitasse in qualche anfratto del tuo cuore e riaffiorasse a ogni minimo segno
che tu interpretavi come un abbandono definitivo. Un giorno al mare, mentre
abbracciavi il tuo amante sulla sabbia, passò un aeroplano giallo a una quota
talmente bassa che si vedeva la testa del pilota; lui si alzò attratto dal
rombo lieve delle eliche e guardò l’aereo scomparire, mentre i tuoi occhi si colmarono
di angoscia e di nulla. Una sera in una casa di campagna giacevi con lui fra le
lenzuola ma ti immaginavi tra una folla di facce spente come se una nuova
infezione avesse svuotato tutti quanti di curiosità e sentimento; allora in
sottoveste andavi giù in cortile a giocare con i cani fino all’alba e dicevi
che a volte stavi meglio con i cani che con gli uomini. Certe notti che ti sentivi ignorata da lui e
da tutto ti sdraiavi sul pavimento del bagno guardando il soffitto e gli
dicevi: «Io sto con te soltanto perché
ti aiuto a pagare l’affitto della tua camera
da letto». Quando lui si addormentava, andavi nei boschi ai margini della
città e piangevi con lo sguardo rivolto al cielo e tutti i cani intorno ti rispondevano
ululando; poi tornavi nella stanza e diventavi un’acrobata ridente che roteava
nuda lungo le pareti ponendo il tuo amante al centro. Rientravi così nella
stanza e nel mondo, in una continua altalena fra l’abisso e l’esistenza e nel
corso delle tue oscillazioni impersonavi varie tipologie animali e umane. Ma la
creatura a cui più somigliavi era un gabbiano gigante che si dibatteva su una cascata
in un insieme colorato di oggetti di plastica e di altri materiali colorati:
biciclette, palloni, bottiglie, frigoriferi, bambole, ruote,
buste e giocattoli che diventavano una massa ondeggiante trattenuta dal
riflusso delle acque sul margine basso della cascata. Il gabbiano era incappato
nella furia degli scrosci e sprofondava sott’acqua per poi fuoriuscire agitando
le ali ed essere di nuovo travolto da quella massa variopinta che gli cascava
addosso in un vortice continuo che gli consentiva di emergere, ma non di
volare. Quel gabbiano ti somigliava per l’altalena permanente fra l’alto e il
basso e per lo sguardo lucente che assumeva ogni volta che riaffiorava
dall’acqua; ma alla fine del giorno non c’era più e chi l’aveva visto si
domandò se fosse scomparso fra i rifiuti colorati o se avesse preso il volo nel
grigio azzurro del cielo. Nei giorni seguenti eri scomparsa anche te e all’ora
dell’aperitivo nessuno ti vide più seduta al bar con i giovani e gli anziani a
cui turbavi i sensi. Il tuo amante ti cercò fra i barboni, i ladri e i nottambuli,
ma incontrò soltanto un’altra acrobata che alle prime luci dell’alba roteava
tra i vicoli e le strade del ghetto.
[Una
precedente versione del racconto si trova in Bestiario umano, storie sugli
esseri umani, DeriveApprodi, 2020]
LUIGI ANANÌA
BIONOTA
Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per Il semplice, Maltese narrazioni e Nuovi Argomenti.
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