QUANDO IL «CUORE TORO» BATTE IN UN'ALTRA CITTÀ (Le squadre del cuore) ~ di SILVERIO NOVELLI - TECLAXXI
LE SQUADRE DEL CUORE
QUANDO IL «CUORE TORO» BATTE IN UN'ALTRA CITTÀ
di SILVERIO NOVELLI
Torino, collina di Superga: poster fotografici che ritraggono i calciatori del «Grande Torino».
Già, perché al tutto,
che poi dirò, si aggiunge anche la disfunzionalità evidente che consiste nel
fatto, da torinese di nascita e di famiglia, di dover tifare per la squadra
granata vivendo in un’altra città, lontana, grande, maxima, nella quale si gioca un’altra importante, storica sfida
stracittadina tra formazioni abbonate alla serie A e sostenute da un tifo
assordante e viscerale. Tifare per il Toro, da quando si è bambini, vivendo a
Roma. Basterà figurarsi una scena.
Allo stadio con il padre
Roma. È domenica, in un
tiepido pomeriggio invernale del 1965, il 12 di dicembre. In un’Italia ancora
bagnata dalla risacca dell’onda del boom economico che si va ritraendo, ma
ancora all’apparenza in pace (quattro anni mancano alla bomba di Piazza Fontana,
anche se dal 1964 una commissione parlamentare lavora sul silente dossieraggio
del Sifar-Servizio informazioni forze armate), planiamo sulla conchiglia aperta
e assolata dello stadio Olimpico a bordo di un drone invisibile. Sono quasi le
due e mezzo, sugli spalti ci sono circa trentacinquemila spettatori («sono
assiepati», scrivono le cronache). La Roma gioca con la divisa completamente
bianca, i colori sociali stanno sulla banda trasversale della casacca e sui
risvolti dei calzettoni; il Toro, il Toro del capitano Giorgio Ferrini, una
bandiera, e del giovane virtuoso del dribbling Gigi Meroni, gioca con la
classica casacca granata e i pantaloncini bianchi. Nella Tribuna Tevere, silenzioso
e attento a non tradire la propria fede granata, c’è un giovane uomo di 37
anni, occhi azzurri e capelli cortissimi castano chiari, che ha portato per la
prima volta con sé allo stadio il figlioletto di sette anni e poco più, una
zazzera biondissima. C’est moi, quel
bambino, e ci pensa lui a svelare la fede del padre, perché non c’è modo di
farlo tacere: da quando la partita è cominciata i suoi idoli in campo attaccano
e hanno già costretto il portierone della Roma, Fabio Cudicini (momentaneo
ritorno al futuro: è morto recentemente, a 89 anni), a due-tre interventi
difficili e a ogni intervento il biondino è saltato in piedi e ha urlato e poi
si è lamentato col padre. I tifosi romanisti accanto ridacchiano e sopportano.
E poi, all’improvviso, al
25’, ecco che il pallone capita tra i piedi di questo Tamborini Stefano da
Lacchiarello, Milano, che il biondino conosce come figurina dell’album Panini, e
pam!, da venti metri questo qua, mentre Puja, Rosato e Poletti fanno le belle
statuine, scaglia un tiro fortissimo che colpisce la parte interna della
traversa e batte per terra oltre la linea, senza che Lido Vieri accenni un
tentativo di parata. Allora il bambino, mentre tutti scattano insieme in piedi
urlando intorno a lui e un boato si solleva come un terremoto, guarda il padre,
che si è lentamente alzato scuotendo la testa, e gli scoppia a piangere in
faccia. Alla fine, col buonumore paternalistico di chi sta vincendo, gli
spettatori romanisti sono perfino affettuosi, senza perdere la tipica punta di ironia
sorniona: «Daje, a pupe’, che tra cent’anni la vincete voi»; qualcun altro gli
accarezza la testa: «Lo vedi quant’è bbionno? Me sembrava strano che era de
Roma»; una signora gli regala un lecca-lecca, che lui prenderà a ciucciare tra
le lacrime e riporterà a casa nella tasca impiastricciata del cappotto. Ma io,
oggi, sul drone, fuori del quadretto oleografico, so che quel bambino è
incazzato nero, incazzato e disperato, perché «Il Torino, a Roma, ha perso e ha
deluso amaramente» (questo l’attacco dell’articolo del cronista della torinese
«Stampa sera», il giorno dopo).
Gemini 6, Charles de
Gaulle e la birreria di Chicago
Il dramma privato
accadeva mentre, secondo «Stampa sera»: il «colossale razzo (alto come una casa
di sei piani)» della Gemini 6 prendeva fuoco sulla rampa di lancio a Cape
Kennedy; era in corso il duello tra il generale Charles de Gaulle e il non
ancora cinquantenne François Mitterrand nel ballottaggio per le presidenziali
in Francia; lo scrittore britannico William Somerset Maugham si spegneva
novantunenne in un ospedale di Nizza; un folle, a Chicago, dava fuoco a una
birreria gremita di gente, provocando la morte di tre persone e il ferimento di
più di venti. Ma il dramma privato sovrastava ogni immaginabile evento,
grandioso o catastrofico.
Tifare Toro lontano da
Torino: si era disegnato, nelle linee essenziali, il destino di una sofferenza.
E qui ci riagganciamo al tutto,
evocato in apertura di questo scritto. Il tutto
che le tavole della legge dell’eroica e valorosa stirpe granata caricano sulle
spalle di ogni tifoso del Toro appena nato, si può dire. Perché la specificità
del tifoso granata è quella di avere sofferto molto, anzi, tutto, e ingiustamente, per quel che hanno deciso il caso, il
destino, la predestinazione, oltre al mondo avverso e ostile degli
ingiustamente privilegiati (in primo, e tendenzialmente ultimo, luogo si tratta
dei “gobbi” juventini) o privilegianti (poteri forti che dominano la politica
del calcio: ma anche in questo caso, gira e rigira, si torna sempre alla
Juventus, più la Fiat che la squadra, più gli Agnelli che gli arbitri, anzi,
gli arbitri in quanto manipolati o comprati dagli Agnelli – vedi Moggi &
soci).
La sfiga granata
da Superga al fallimento
Il caso, il destino, la
predestinazione, il kerigma negativo
e, nella vulgata di tutti i giorni,
in una parola sola, facile ed espressiva, la sfiga: l’aereo che si schianta sulla collina di Superga, tutto il
Grande Torino di Valentino Mazzola (compresi dirigenti, accompagnatori e tre
giornalisti) – cinque scudetti consecutivi dalla stagione 1942-1943 alla
stagione 1948-1949 –, raso al suolo, il 4 maggio del 1949, di ritorno da un’amichevole
a Lisbona disputata contro il Benfica per organizzare una colletta a favore del
capitano della squadra portoghese che versava in grosse difficoltà economiche…;
la morte di Gigi Meroni, la “farfalla granata” (titolo di una biografia a lui dedicata
da Nando dalla Chiesa), il dribblomane che esaltava i tifosi anche per i suoi
comportamenti fuori del campo, uno spiritoso giovanotto beatnik a spasso per la
città con una gallina al guinzaglio, che fu investito il 15 ottobre 1967 mentre
attraversava a piedi corso Re Umberto insieme col compagno di squadra Fabrizio
Poletti da una Fiat 124, guarda caso,
guidata da un tifoso granata, Attilio Romero, che sarà poi l’ultimo presidente
del Torino prima della bancarotta del 2005; due grandi “cuori Toro” che
avrebbero meritato di far parte della compagine del Toro vincitore dello
scudetto nella stagione 1975-76 ma che invece erano stati lasciati andare via nel
1975 per ringiovanire l’organico: Aldo Agroppi e Giorgio Ferrini: Ferrini morì
di emorragia cerebrale nel 1976, da “secondo” dell’allenatore del Toro Gigi
Radice; Agroppi (che morirà all’inizio del 2025) aveva segnato un gol che tutti
avevano visto, meno l’arbitro di quel Sampdoria-Torino (campionato 1971-72),
Barbaresco («ottimo vino e pessimo arbitro», commentò Agroppi anni dopo), gol
che avrebbe forse permesso al Toro di vincere lo scudetto (altro particolare
all’insegna del caso: a ricacciare fuori della porta la palla
che aveva superato la linea bianca fu Marcello Lippi, poi a lungo allenatore
della Juve, che, da gobbo integrale qual era, in seguito negò sempre che la
palla fosse entrata); e poi, in questa catena di eventi dove stupiscono certe orbite
che si incrociano, il fallimento del Toro nel 2005, dopo che il presidente
Romero, con inquietante ingenuità, aveva trascinato avanti l’agonia perché
sperava chissà come di riuscire a salvare una società gettata sul lastrico a
rate, anno dopo anno, da dirigenze incompetenti, arroganti e/o truffaldine dopo
l’abbandono del mitico Orfeo Pianelli, il presidente dello scudetto del
’75-’76, e la resa del suo successore, il non straricco gentiluomo Sergio Rossi.
Toro o Cairese?
Una storia da crocifissione,
più che da retrocessione, che pure ci fu: negli anni Cinquanta del Novecento
dopo la scomparsa del Grande Torino; poi nel 1989; ma soprattutto, più volte, tra
il 1996 e il 2011, a cavallo tra fallimento della società e rinascita del
marchio, acquisito gratuitamente da Urbano Cairo (2005). Perché i tifosi del
Toro si sentono davvero così: crocifissi, da sempre, al duro legno dell’ingiustizia,
voluta dagli dèi e dai gobbi corruttori del mondo del calcio; da vent’anni,
nell’era Cairo, oltre che crocifissi, si sentono offesi, offesissimi, e quindi
sempre reattivi e incazzosi, in nome del sacro passato tradìto e degli
evaporati valori del tremendismo granata (neologismo coniato dallo
scrittore e giornalista Giovanni Arpino, juventino non fazioso; il “nostro”
giornalista di riferimento è però stato il super-tifoso granata Giampaolo
Ormezzano, che ringraziava iddio di non averlo fatto nascere juventino a Torino),
tremendismo che impone ai calciatori di sputare il sangue in campo fino
all’ultimo secondo, non importa se si vinca o se si perda, decisivo essendo l’onorare
la maglia che indossarono i Giganti del Grande Torino. Offesi, quindi, negli
ultimi vent’anni, dal, secondo loro, cinico comportamento dell’imprenditore
Urbano Cairo, che userebbe il Toro come fiore all’occhiello per il palcoscenico
mediatico e politico, trattando nei fatti il Toro come un’aziendina personale e
non come un organismo sociostorico vivente, animato dal soffio della passione che
spira dalla curva Maratona e si sprigiona dalle nari di tutti i tifosi vicini e
lontani, i quali sdegnano l’ottavo, decimo o tredicesimo posto e, mentre
pretendono le vette della classifica, ogni anno si vedono invece costretti a
tifare la Cairese (come i più arrabbiati ridenominano il Torino),
squadruccia povera di cuore, di soldi e di giocatori da Toro (tremendisti). L’ultima
bandiera rimasta, il giovane capitano Alessandro Buongiorno, l’anno scorso ha
capito l’antifona e ha accettato di trasformarsi in plusvalenza, passando ad
altra ben più quotata società calcistica.
Nonostante tutto
Nonostante tutto;
nonostante il ricordo di allenatori come Rocco, Fabbri, e soprattutto Giagnoni,
Radice e Mondonico, nonostante la compulsazione memoriale (coonestata dai
filmati su YouTube) dei servizi della Domenica sportiva sulle partite
del Toro dal 1975 al 1982, e il ricordo vivo dello stadio Delle Alpi che
tremava per i salti sulle gradinate dei 50.000 tifosi urlanti, raggiunto appena
in tempo per l’inizio del match serale di semifinale di Coppa Uefa Torino-Real
Madrid (15 aprile 1992, Toro allenato da Mondonico), dopo aver attraversato
mezza Italia il giorno stesso, partendo in treno alle tre del pomeriggio con
mio cugino Edoardo da Roma e poi ricongiungendoci a Firenze con un suo amico
granata che ci prese a bordo della sua auto e la guidò infrangendo perennemente
il limite di velocità (finì due a zero per il Toro!; ma la finale fu vinta dall’Ajax
e, attenzione, il Toro, nella partita di ritorno, prese due pali e una
traversa: sfiga); nonostante la delusione dipinta sul viso di mio figlio
Francesco, dodicenne, tifoso della Roma ma felice di accompagnare il padre e lo
zio Massimo a Terni a vedere una partita del Toro il 28 maggio 2005, quando il
Toro si fa rimontare dalla Ternana e perde i sogni promozione diretta in serie
A e Francesco devo consolarlo io, mentre per me non ci sarà consolazione al
termine del campionato, che si concluderà con la promozione in serie A ai
playoff cancellata dalla revoca estiva da parte della Lega calcio, a causa
della catastrofe finanziaria della A. C. Torino.
Nonostante questo,
nonostante quello, nonostante perfino la mitologia per me ormai stantìa del
destino avverso e dei valori del grande glorioso passato… sono ancora qui, seduto
sul divano di casa, a Roma, ogni settimana o quasi, il telecomando in mano tra
un sospiro e un’alzata di spalle tra me e me, il rettangolo di gioco che
verdeggia sullo schermo, sono qui per trangugiare i miei 90 minuti più recupero
di Toro di Cairo, che con molta probabilità mi deluderà (come un animale, lo sento
quando – vale a dire quasi sempre –, il Toro mi deluderà, lo so
prima ancora che le squadre entrino in campo), trasformandomi fino al giorno
dopo in un vecchio biondino irritabile e incazzato con sé stesso perché
incapace, che sfiga, di farla finita con questa maledetta
passione granata.
SILVERIO NOVELLI
BIONOTA
Silverio Novelli si occupa da molti anni di lingua italiana. Tra le altre cose, ha scritto una grammatica scolastica (a sei mani), un paio di dizionari di neologismi (a quattro mani) e altri testi di divulgazione linguistica (a due sole mani, finalmente, le sue).
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È gradita la firma in calce al commento. Grazie.