IL RITORNO DELLE MUSE DI GIORGIO SOLOMOS (TRADUZIONE) ~ DI MARCO MARTELLA - TECLAXXI
TRADUZIONE
GIORGIO SOLOMOS
IL RITORNO DELLE MUSE
Quello che segue è il discorso che il poeta Giorgio Solomos pronunciò
nel 1934 quando gli fu consegnato il Premio per la poesia di Atene, la città in
cui era nato e in cui aveva passato la giovinezza prima di emigrare a New York.
Fu pubblicato, corretto e annotato dall’autore, l’anno successivo nella
rivista Poíisi.
Sono poco abituato a parlare di me, ancora meno della
mia poesia, e dovendo pronunciare un discorso di accettazione per questo prestigioso
premio, preferisco condividere con voi, membri dell’Accademia di Poesia, qualche
riflessione sul problema che forse più tormenta noi autori: l’ispirazione.
Quanto ci lamentiamo della sua assenza
quando la pagina resta ostinatamente bianca! Ma che cosa sia l’ispirazione, noi
non lo sappiamo. “Come era facile la vita degli scrittori di un tempo, quando,
in cerca di ispirazione, si rivolgevano alle Muse…”, mi ha detto qualche giorno
fa sospirando un amico romanziere, dopo avermi confessato che da quasi tre anni
non ha scritto una riga. È di loro che voglio parlarvi, delle divinità che un
tempo presiedevano alle arti e da cui nasceva l’ispirazione. “Le Muse?” diranno
alcuni di voi, storcendo discretamente il naso. “Argomento libresco, così poco attuale!”
E forse rimpiangeranno di aver assegnato questo premio a me e non, che so, allo
stimato signor Marinetti o a un altro autore convinto che il poeta debba sempre
essere absolument moderne[1],
anzi più moderno della stessa modernità (e cioè un avanguardista). In fondo, li
capisco. Le Muse non ci sono più e se ancora ci fossero né voi né io sapremmo
riconoscerne la voce, senza parlare del fatto che forse non sono mai esistite.
Bene. Sono andato a cercare nel ripiano
più alto della mia libreria l’Iliade (il bel volume rilegato in marocchino rosso
che mi regalò mio padre quando compii quattordici anni) e mi sono riletto il celebre
incipit: “Cantami, o Diva, l’ira funesta del Pelide Achille…”
Poi sono andato a cercare l’Odissea,
che inizia, come sapete, con i versi: “Musa, raccontami quell’uomo ricco di
ingegno, che molto errò...”
E infine l’Eneide: “Ricordami,
Musa, le cause, per quale volontà divina offesa, e perché la regina degli dèi
costrinse un eroe illustre…”
La Musa invocata, in tutti e tre i
casi, era ovviamente Calliope, la più importante tra le nove figlie di Zeus e Mnemosine
che abitavano sul monte Parnaso: la Musa del canto epico, la Musa dalla chiara
voce, che i greci raffiguravano seduta con una tavoletta sulle ginocchia e uno
stilo tra le dita. Rispondeva sempre alle invocazioni dei poeti? O anche allora
l’attesa dell’ispirazione era spesso vana? E quella della Musa era una semplice
visitazione, o un vero e proprio rapimento,
un ratto divino insomma, non dissimile da quello dei nimphfólēptoi, gli uomini che dopo essere stati posseduti sensualmente
dalle ninfe entravano in un sacro delirio? E ancora: come giungeva
l’ispirazione divina? Come un soffio di vento attraverso la finestra aperta, quando
il poeta dormiva sotto le fronde di un ulivo o mentre camminava per le vie pensando
ad altro?
Tutto questo, temo, non lo sapremo mai.
Lo so, c’è di che far sorridere un
critico o un onorato accademico del nostro tempo convinti che tutto, in arte,
stia nel talento dell’individuo, dell’ingegnoso autore, del genio singolare che
si solleva al di sopra della massa. Io non sono d’accordo. E anzi affermo che
il talento individuale è un’illusione, una delle tante del nostro vanaglorioso tempo.
L’invocazione alle Muse è l’ennesimo
segno, se ce ne fosse bisogno, della saggezza del mondo antico, il mondo di prima
dell’avvento della macchina, il mondo verticale e non ancora piatto, in cui il
sacro era ovunque. Gli uomini di quei tempi sapevano che senza il divino (le
sue minacce, le sue prodigalità, i suoi incomprensibili capricci e i molti
limiti che esso imponeva agli uomini) questi ultimi erano poco o nulla. I poeti
presagivano che la loro poesia non gli apparteneva veramente, o solo in piccola
parte. Forse la loro esistenza stessa (almeno quando scrivevano) non era loro: se
poetavano era perché qualche divinità era entrata in essi, si era appropriata
del loro corpo mortale, della loro mente fallace, e dettava i bei versi. Tutto ciò li obbligava alla
modestia, virtù di cui noi abbiamo solo un vago ricordo. E sapevano pure che l’invocazione
era certo necessaria ma non sufficiente. In fondo l’ispirazione che regalavano le
Muse era un po’ come la vita: veniva e se ne andava all’improvviso, tornava e
si allontanava di nuovo, per ragioni che nessun filosofo, neppure Aristotele, avrebbe
potuto elucidare.
E davvero, come doveva essere più
semplice la vita per i poeti antichi quando cercavano l’estro fuori di loro, nella natura, e non scrutando
senza requie in fondo a se stessi! Di modo che il poeta antico a cui l’ispirazione
veniva a mancare si sedeva sotto un albero e aspettava, fiducioso, là dove il
poeta moderno si tortura e maledice il suo psicanalista[2].
Per lui la poesia era un fenomeno naturale come un altro, simile alla caduta
delle foglie delle querce in inverno e allo sgorgare di una sorgente dalla
roccia o al suo prosciugarsi. E tutto avveniva per volere delle forze
superiori.
Oggi, beninteso, un manoscritto, poema
o romanzo, che inizi con un’invocazione alle Muse avrebbe ben poche speranze di
essere preso sul serio da una casa editrice di New York, Parigi o Atene. Del
resto a quale autore verrebbe mai in mente di affidarsi a una divinità? E se
anche volesse farlo, a chi si rivolgerà, se il suo cielo è vuoto? E ancora, chi
potrebbe affermare senza essere preso in giro che, come la danza o la musica,
la poesia è un’arte sacra, e che più
si allontana dalle origini più s’affievolisce?
Per noi la poesia non è un evento
naturale ma puramente intellettuale, opera della mente. E la mente, lo
sappiamo, è sterile se affidata a se stessa, separata dai bisogni corporali e dall’influsso
delle stelle.
Perciò nel mondo sconsacrato,
di poesia ce ne è sempre meno. Forse mentre trionfa lo spirito della macchina e
l’uomo si sente affrancato della natura, non ne resta più affatto[3].
E se nessuna divinità visita i poeti, come stupirsi se nei loro versi nessuna vera
brezza spira, se il mare è solo un’idea e non sa mai di mare, e se persino la
morte, il dolore o il desiderio sono vuoti simulacri, segni che non rimandano che
a se stessi? E
perché poi indignarsi se il divenire delle belles
lettres è ormai in mano ai mercanti del Tempio?
Del resto, il mondo intorno a noi non è
più fatto per la poesia. I luoghi in cui il pensiero è davvero in grado di
dispiegarsi, farsi filosofia o arte (parlo dei luoghi in cui lo spirito si
schiude e in cui certe notti appaiono le lucciole, che la maggior parte di voi,
temo, non ha mai visto), si sono fatti rari. Di ombra vera e rinfrescante, negli
spazi della nostra vita, ce n’è sempre di meno, per non parlare del silenzio o
della solitudine. La cultura moderna ha fatto dei loro contrari (luce artificiale,
rumore, spirito gregario) i suoi valori supremi. Ebbene, senza ombra, silenzio
o solitudine le possibilità per la poesia sono ridotte, forse inesistenti. Anche
questo è, credo, il segno della scomparsa del sacro. Le strade del mondo e
quelle della poesia, amici, si sono separate e il mondo va verso nuovi, rumorosi
progressi, mentre la poesia si addormenta nel suo sonno senza sogni, che
equivale al nulla. Sicché anche i versi che con fatica ho composto lungo tutta
la mia vita, e che generosamente voi avete voluto premiare questa sera, della
poesia hanno solo l’apparenza. Non sono nulla. Nei momenti di ottimismo mi
dico: quasi nulla, e mi pare che in
quel “quasi” sia ormai ridotto tutto ciò che vale.
Occorre allora inventarci qualcosa di nuovo,
del tutto nuovo, e dal torpore che è caduto sui nostri sensi creare un altro modo
di fare poesia. Come? Trovando il sacro proprio nell’assenza di sacralità del paesaggio
moderno? O l’ispirazione nel vuoto lasciato dalle Muse? Oppure raccogliendo,
quando abbiamo la fortuna di imbatterci in esse, le tracce del dio Pan
scomparso? E magari accontentarsi di una poesia apoetica, che abbia cioè rinunciato a ogni forma di poeticità, povera
e modesta al più estremo grado.
Quel che conta è che la poesia rinasca,
poiché senza di essa, temo, la sussistenza degli uomini su questa nostra terra sarà
presto una vita di fantasmi senza corpo né anima. La poesia è la fiammella la
cui presenza ci manteneva in vita e di cui resta oggi un bagliore che si spegne
sui muri delle nostre stanze quando scende la sera.
A tutto ciò riflettevo proprio pochi
giorni fa nel giardinetto pubblico della 36° strada di New York in cui vado a
leggere ogni mattina, dopo aver trascorso due o tre ore nel mio studio a
scrivere.
Forse perché pensavo al viaggio che
avrei fatto per venire oggi qui da voi, o al nostro paesaggio di ulivi e
cipressi che da anni agognavo di rivedere. Forse perché una brezza invernale,
ma stranamente tiepida per la stagione e piena di promesse, era entrata nel
giardinetto dandogli l’aspetto di un angolo di campagna, come se i grattacieli tutt’intorno
fossero scomparsi o si fossero trasformati in vette lontane, inaccessibili e
meravigliose. Fatto sta che mi sono messo a ripensare all’orticello che
coltivava mio padre, nella casa della periferia di Atene in cui abitavamo. Mio
padre, che per primo mi iniziò ai misteri della poesia leggendomi i versi immortali
di Saffo e di Alceo… Intorno al giardino newyorkese le insegne luminose della
notte precedente erano ancora accese sulle facciate dei palazzi, le automobili
correvano veloci, ma per me, come dicevo, non c’erano più. E mi è venuto in
mente che in un giardino (qualunque giardino, anche un polveroso giardinetto di
città) qualcosa cresce in ogni istante. Che anche in inverno, quando tutto pare
morto, spunta qualche filo d’erba dalla terra e le gemme si ingrossano piano
sui rami – sì, anche sui rami degli arbusti soffocati dai gas di scarico. Ho
pensato anche che forse l’unica cosa sacra che resta a noi vicina sia proprio
quel movimento invisibile d’erba, di gemme, di radici. Per non parlare del
vento, che è lo stesso che scompigliava la barba di Zeus e quella di Omero. L’ultima
arte sacra che abbiamo è allora quella del giardiniere, che con questi elementi
opera ogni giorno. Per sua natura, mi son detto (ripensando a mio padre quando
osservava pensoso le sue piantine di pomodori), per sua natura il giardiniere è
fiducioso. I suoi dèi si chiamano Sole, Pioggia, Vento. A volte sono temibili,
a volte benigni, ma sono sempre intorno a lui: su nel cielo o nel sottosuolo
tra le radici.
Forse, mi sono detto più tardi, mentre mi
alzavo dalla panchina per rincasare e intorno a me la città ridiventava
rumorosa, forse basterà tornare al giardino per ritrovare le strade della
poesia. Qualunque giardino. Un giorno apparirà qualcosa tra i cespugli di
alloro e i papaveri. Un bagliore incerto, una tiepida nuvoletta di polline
sollevata dal vento, dorata come nei miti o nelle fiabe della nostra infanzia. Nell’aria
si faranno udire parole nuove, forse una nuova lingua, stralci di racconti, e appariranno
in trasparenza volti eterei (ma sensuali e terribili) illuminati da una luce
d’aurora. Allora il giardiniere, cioè il poeta, poserà gli attrezzi e penserà:
Sono tornate! E si pizzicherà il braccio, temendo che sia solo un sogno, ma dicendosi
nello stesso tempo che è strano, che lui se le era immaginate diverse, le famose
Muse! Più terribili e ammantate di gloria, non sporche di terra, non vestite di
semplice edera e di bacche. E forse quella che tornerà per prima sarà proprio
Calliope, la Musa del canto eroico. A quel punto questo giardiniere si sentirà
perduto. La nuvoletta d’oro è entrata in lui attraverso gli occhi, la pelle o
le narici. Egli non è più sé stesso, i suoi sensi bruciano – è vittima del
divino rapimento, come avveniva un tempo.
Allora, forse, tutto comincerà di nuovo.
Vi lascio perciò su un invito (mi rivolgo ai giovani, se ce ne sono tra di voi): quando vi sedete al vostro tavolo per iniziare a scrivere, provate a invocare – se non le Muse, allora il vento, o il sole fuori la finestra del vostro studio, o la pioggia che torna sempre ad abbeverare la terra, insomma questa natura che non ci abbandona anche se noi abbiamo abbandonato lei. Siate pazienti e se potete abbiate un po’ di fede, perché fede e pazienza sono tutto ciò che ci rimane. (traduzione italiana di Marco Martella)
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Note
[1] La frase è, ovviamente, di Arthur Rimbaud (Une saison en enfer).
[2] Devo correggere questa affermazione ingiusta. Molti scrittori rifiutano di ricorrere alla terapia freudiana, temendo che questa li privi dei loro demoni. È ciò che mi confidò un giorno il poeta tedesco (sic) Rainer Maria Rilke, il quale in gioventù fu tentato dalla cura psicanalitica. E cosa sono i demoni del poeta (o, per usare un termine più moderno, i suoi “fantasmi”) se non i succedanei moderni delle antiche Muse, o il poco che ci resta di esse?
[3] Kavafis, Jammes, Mandelstam e forse qualcun altro… Sono i nostri ultimi poeti, e sono tutti vecchi. Almeno in alcuni momenti devono essere stati accarezzati da ciò che meravigliosamente Keats chiamava “the viewless wings of poesy”, dagli ultimi bagliori della coda di una cometa che per secoli ha illuminato la vita degli uomini.
GIORGIO SOLOMOS
Purtroppo non disponiamo di nessuna foto di Giorgio Solomos. Ci affideremo a «Olive grove in Grece», illustrazione usata dalla Minneapolis literary journal che pubblico’ il discorso di G. Solomos nel 1959. purtroppo non c’è nessuna foto di Giorgio Solomosp
MARCO MARTELLA
Marco Martella, scrittore e storico dei giardini, vive in Francia. Dal 2010 dirige la rivista Jardins che esplora il giardino e il paesaggio nelle loro dimensioni poetiche e artistiche. È consigliere culturale dell’Istituto Europeo dei Giardini e Paesaggi. I suoi libri sono pubblicati in Francia, Italia, Spagna, Croazia e Germania.
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