Ernst Lubitsch: il berlinese che lasciò il suo segno a Hollywood (ALLA SCOPERTA DI BERLINO) ~ di Carla Mazzarelli - TeclaXXI

 

ALLA SCOPERTA DI BERLINO

 

Carla Mazzarelli

 

Ernst Lubitsch: il berlinese che lasciò il suo segno a Hollywood

 




*Angel, 1937 da sx a dx: Herbert Marshall, Marlene Dietrich, Melvyn Douglas 
(un britannico, una tedesca e uno statunitense)


 Quando sono a Berlino, non guardo la televisione, se non per vedere (e rivedere) i film in DVD che ho accumulato sullo scaffale sotto la grande finestra del soggiorno.

C’è un po’ di tutto: dagli 007 più vecchi alle commedie di Eduardo, dalla collezione di Hitchcock alla raccolta completa dei Maigret interpretati da Gino Cervi. Uno spazio consistente è dedicato alle vecchie commedie americane, soprattutto quelle in bianco e nero – per capirci, quelle con Gene Tierney, Bette Davis, Greta Garbo e Marlene Dietrich, Hedy Lamarr, Doris Day e Mirna Loy, fino alle più moderne con Grace Kelly, Marylin Monroe, Audrey Hepburn. È impossibile nominarle non dico tutte, ma nemmeno le più importanti senza fare torto a qualcuna. Mi pervade una nostalgia verso quel “mondo” rappresentato e ancor di più se penso ad alcuni interpreti maschili: Cary Grant, James Stewart, Gary Cooper e alla loro gentilezza di modi e signorilità. So perfettamente che oggi ci sono interpreti eccezionali (Meryl Streep e Al Pacino, per fare solo due nomi), ma le immagini delle vecchie commedie americane mi rilassano, mi divertono, mi alleggeriscono gli occhi dalle brutture che siamo costretti a guardare ogni giorno nell’attualità. Insomma, esse rappresentano un intervallo di serenità, che mi dà per gli occhi «una dolcezza al core che’ntender no la può chi no la prova» (chiedo scusa della citazione in apparenza un po’ pedante, ma il verso dantesco si è scritto da solo!).

Avrò visto almeno una decina di volte Come sposare un miliardario, che pure è relativamente recente, a colori e del ’53, con l’elegante Lauren Bacall e la straordinaria Marilyn Monroe nei panni di una ragazza estremamente miope che, per non apparire meno bella, non si mette gli occhiali. Ne conosco le battute a memoria, eppure ogni volta mi diverto e mi si addolcisce lo sguardo ad ammirare gli arredi elegantemente colorati e modernissimi dell’appartamento in cui loro vivono. Mi rendo anche conto del maschilismo che pervade l’intera pellicola, ma francamente non me ne importa niente, perché trovo molto più sincera e raffinata questa di altre commedie pur “politically correct” contemporanee.  

Ma ora è il momento di trattare Il cielo può attendere, il film con il quale comincerò a scrivere di Ernst Lubitsch. Questo suo film è stato realizzato nel 1943 (Heaven can wait), è tratto da un’opera teatrale di Leslie Bush-Fekete, ed è l’unico film in technicolor del regista. I protagonisti sono Gene Tierney e Don Ameche, ma non posso non citare Charles Coburn (il giudice de Il caso Paradine di Hitchcock). Che dire? Sono quasi due ore di dialoghi raffinati a volte divertenti altre volte sarcastici, a tratti perfino tristi e commoventi, quasi amari. È il racconto in flashback dell’intera vita del protagonista sottoposto al giudizio nell’aldilà e il cui finale, che non svelo per chi non l’avesse ancora visto, fu censurato e soppresso in Italia. Il film segue di un solo anno il più famoso Vogliamo vivere! (To be or not to be,1942), una satira sul nazismo, caratterizzato anche questo da quello che Billy Wilder definì il “tocco alla Lubitsch”, riferendosi allo stile elegante e leggero con cui è capace di affrontare anche temi complessi. Un esempio celebre è costituito dal film Ninotchka (1939), che mette in evidenza l’enorme differenza culturale tra l’Occidente e l’Unione Sovietica attraverso un gioco anche psicologico e amoroso. Di Ninotchka ha già scritto su TeclaXXI il direttore Alessandro Iovinelli, focalizzandosi soprattutto sul meccanismo che provoca la risata (credo l’unica nella sua carriera, sicuramente la prima) di Greta Garbo. Anzi, proprio la lettura di questo articolo mi ha invogliato a scrivere di Lubitsch, partendo proprio dalle sue origini berlinesi.


    Ernest Lubitsch nacque a Berlino nel 1892 in una modesta famiglia ebraica da padre bielorusso e madre di un paese poco distante dalla capitale. Ho provato a fare una ricerca per capire dove avesse abitato negli anni berlinesi, ma non ho trovato tracce. Non escludo, però, durante una delle mie frequenti passeggiate di imbattermi in una targa che lo menzioni. Ho letto che studiò al Sophiengymnasium, oggi una scuola piena di succursali, ma un tempo nel solo distretto di Mitte, quindi immagino abitasse lì vicino. Ancora giovanissimo, iniziò a dedicarsi al teatro e al cinema. Fu studente di Max Reinhardt che, dal 1905, era diventato il direttore del Deutsches Theater, considerato all’epoca il più progressista della città. Lubitsch lavorò come attore sotto la sua direzione. Dal 1914 iniziò la sua attività di regista dedicandosi soprattutto al genere della slapstick comedy, più tardi diresse soprattutto commedie, favorito qualche anno più tardi, anche dall’avvento del sonoro. Nel 1922 lasciò Berlino e si trasferì negli USA, perché chiamato a Hollywood da Mary Pickford e dalla sua casa di produzione, la Mary Pickford Company. In un primo momento rifiutò di dirigere un loro brutto progetto per poi accettare un compromesso con la regia di Rosita, che gli aprì tutte le porte di Hollywood e segnò l’inizio di una lunga e importante carriera fatta di collaborazioni e successi con i più importati attori e attrici del momento, tra cui Greta Garbo e Marlene Dietrich (Angel, 1937). Sceneggiatore e produttore egli stesso, collaborò con la Warner Bros e poi con la Paramount e l’MGM.

Nel 1938 fu tra i soci fondatori dell’European Film Fund, che aiutava gli intellettuali europei in fuga dal nazismo. Lubitsch fu nominato presidente del fondo, in quanto considerato il più famoso regista europeo ad Hollywood: tra i beneficiari vi furono anche Heinrich Mann, Alfred Döblin, Bertolt Brecht e molti altri più o meno famosi.

Ernest Lubitsch fu candidato tre volte al premio Oscar come regista, anche per Il cielo può attendere, ma ricevette soltanto nel 1947 il premio alla carriera, poco prima di spegnersi a Hollywood il 30 novembre dello stesso anno.

*tutte le immagini di questo articolo sono offerte dall'autrice 

 CARLA MAZZARELLI


BIONOTA

Sono nata a Roma nel 1957.

 Dopo essermi laureata in Lettere presso l'università La Sapienza, sono entrata in ruolo ed ho insegnato prevalentemente nei licei artistici. Venuta in contatto col mondo dell'arte, soprattutto romano, ho aperto negli anni ’90 una galleria d'arte nel quartiere di Trastevere dove ho esposto numerose mostre di pittori e scultori, emergenti e non. Una bella e molto impegnativa esperienza durata circa dieci anni.

Successivamente ho conseguito tre Master presso l'università Tor Vergata, importanti sia per la mia formazione personale che per la mia professione di docente.

Nel 2007 ho scoperto Berlino, diventata la mia seconda patria e dove trascorro alcuni mesi dell'anno.

Mi diverto con il teatro amatoriale “calcando le scene" da circa dieci anni.

A gennaio del 2024 ho autopubblicato su Amazon il mio primo romanzo intitolato Una via tranquilla e ora mi dedico alla stesura del secondo.

 

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