Dai femminicidi all’educazione dei ragazzi: l’ansia di chi dà un senso alla vita impegnandosi su questi fronti (UNICEF) ~ di Paolo Rozera - TeclaXXI




25 NOVEMBRE 2025 IN OCCASIONE DELLA GIORNATA  INTERNAZIONALE  CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE 

 UNICEF

 

Paolo Rozera

 

Dai femminicidi all’educazione dei ragazzi:

l’ansia di chi dà un senso alla vita impegnandosi su questi fronti

 

 



Io so di fare uno dei più bei lavori al mondo: ho il privilegio di salvare vite umane, in particolare le vite di bambini, bambine, ragazze e ragazzi in tutto il mondo! In qualsiasi parte del mondo la loro vita è in pericolo o non è degna di questo nome, la mia organizzazione interviene. Lo fa da 78 anni, io faccio questo lavoro da 33 anni.

Veramente un privilegio! Ma io i bambini voglio salvarli tutti, non ho il diritto di lasciarne neanche uno indietro, non sono nessuno per decidere chi salvare e chi no. Se fai il mio lavoro, se la tua missione è salvare la vita di bambini e ragazzi, devi tenere sempre la barra dritta e fare molto di più di quello che è nelle tue capacità. Detto così sempre un lavoro immane, impossibile. E invece no! Sono qui a dirvi che è possibile, perché non sono solo! Ho tantissimi colleghi in Italia e nel mondo che fanno il mio stesso lavoro anche per organizzazioni diverse dalla mia.

Ma non riusciamo a salvarli tutti, non ci stiamo riuscendo. Siamo in difficoltà con ciò che non si vede, ciò che si tiene nascosto.

Ho addosso un senso di rabbia che non riesco a descrivere, mi sento addosso una sensazione che è un misto di carenza, rabbia e frustrazione, coraggio e voglia di agire in fretta. Ho imparato che, quando non riusciamo a esprimere ciò che proviamo, è il caso di farsi aiutare da persone che ne sanno più di noi. Io oggi mi faccio aiutare da Jean Paul Sartre, Alessandro D’Avenia e Mario de Andrade.

Nel cimitero di Montparnasse a Parigi potete imbattervi nella tomba di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir e, in particolare, oltre a essere ricoperta di baci la troverete con molti biglietti della metropolitana di Parigi. Perché mettere un biglietto della metropolitana sulla loro tomba?  Ho cercato la spiegazione su questo e se ne trovano tante. In particolare, mi ha colpito quella che attribuisce questa usanza a una frase di Sartre, contenuta in uno dei suoi saggi filosofici, là dove descrive il suo viaggio attraverso la vita come essere un passeggero su un treno senza biglietto, vale a dire “non appartenere proprio a quel posto”. Un senso di inadeguatezza. Ecco ho trovato la parola giusta: io se non salvo tutti i bambini non mi sento adeguato, ed è una brutta sensazione che rischia di vanificare quel poco o tanto che riesco a fare.

In più, sono un maschio (in questo caso non riesco a dire uomo) e questo mi immerge ancora di più in questa brutta sensazione di inadeguatezza.

Mi spiego. Ciò che scatena tutto questo in me è un dato incredibile: ogni 3 giorni e mezzo (3 giorni e mezzo!) in Italia una donna muore vittima di femminicidio!  Gli omicidi di genere rappresentano l’84% degli omicidi di donne. E aggiungo che il 94% delle donne è ucciso da italiani.

Ma torniamo al primo dato. Ogni 3 giorni e mezzo in Italia una donna muore vittima di femminicidio! Quindi, significa che ogni tre giorni e mezzo, almeno un figlio rimane senza entrambi i genitori: la mamma uccisa, il padre che o si uccide, o verosimilmente passerà in galera il resto della sua vita.

Non so se avete idea di cosa possa significare questo per una ragazza o un ragazzo indipendentemente dalla sua età. Per provare a capirlo dovete pensare a quando in guerra cade una bomba in un centro abitato, che distrugge tutti i punti di riferimento di un ragazzo: i suoi genitori, la scuola, il parco dove incontrava gli amici, il campetto dove tirava calci a un pallone. La stessa cosa avviene nel caso di un femminicidio: perdi la tua mamma e il tuo papà, la vita non è più la stessa, vieni additato dai vicini, dagli amici, dai compagni di scuola, insomma da tutti come se in qualche modo fosse una tua responsabilità. Spesso la soluzione è ripartire da zero in una nuova città, in una nuova scuola e, se sei fortunato, in una nuova famiglia con nuovi genitori. Ma tu non volevi, tu vorresti indietro la tua vita di prima, ma non la riavrai mai, puoi solo cercare di andare avanti. E ti chiedi perché ed è una realtà difficile da accettare.

Ho parlato con esperti sul tema: psicologi, psicoterapeuti, magistrati, famiglie affidatarie, assistenti sociali, con i figli delle vittime. Non ho fatto altro che accrescere il mio senso di inadeguatezza, in particolare come uomo mi faccio un po’ ribrezzo. Mi domando; come stiamo trattando le donne?

In una visita in un centro di accoglienza per rifugiati, che si trova in un paese del Medioriente, sulla porta di entrata c’era scritto “se vuoi educare un uomo educa un bambino, se vuoi educare un villaggio educa una donna”. È un bellissimo e realistico proverbio africano. E noi cosa facciamo in Italia? Le donne le uccidiamo!

Da dove nasce questa violenza, questa incapacità di accettare una delusione, perché non siamo più capaci di metabolizzare un NO, perché non siamo più capaci di crescere?

Il pensiero poi che ci sono giovani maschi che uccidono le loro coetanee, mi fa venire in mente due parole Paura e Rabbia. Parole che usa Alessandro D’Avenia in uno dei suoi splendidi articoli.

Lui descrive un forte risentimento nei ragazzi di oggi che vedono la loro rabbia e la loro paura non accolte dagli adulti, e questo fa scivolare i ragazzi nell'odio contro una vita in cui non ci si sente amati e chiamati, ma stretti e costretti. Non abbiamo tempo e strumenti per ascoltare e disattivare il risentimento, e tagliamo corto sulle questioni di fondo. Non c'è gioia, non c'è tenerezza. Di fronte all'indifferenza, all'ipocrisia e al moralismo degli adulti, la rabbia e la paura crescono, ed esplodono in risentimento. Senza parlare poi dell’autolesionismo, che è espressione sempre di paura e rabbia.

Come disarmare allora il risentimento? D’Avenia risponde «Affilando» il pensiero, e il pensiero si affila solo sulla mola del cuore, cioè quando pensare è «farsi carico», come quando diciamo «ti penso». 

«Tu, adulto, non mi pensi. Non ami le mie ombre e io non riesco a vedere la luce che le ha proiettate e che tu forse vedi». 

Ma perché rabbia e paura non ristagnino nel cuore, bisogna aprire un varco. L'educazione se non parte dal dolore dell'altro, aiutandolo ad accogliere rabbia e paura, diventa un insopportabile paternalismo o moralismo. 

Abbiamo noi oggi la cultura per curare queste scissioni interiori? Non lo so, ma se la lama rivela la ferita interna di chi la usa, possiamo provare a immaginare il suo contrario simbolico. Il contrario di tagliare è unire, congiungere, stringere... Il contrario è allora il filo. Non più il filo della lama, ma il filo che cuce, lega, sutura. All'opposto del filo della lama c'è il filo del discorso, del pensiero, del racconto. Intendo: nessi, legami, nodi. Tessere la vita. Tenere il filo per chi, all'altro capo, combatte il mostro nel suo labirinto personale, perché sappia, in mezzo al buio e alla solitudine che tutti sperimentiamo, che potrà sempre tornare alla luce. 

Forse sono riuscito a esprimere il mio senso di inadeguatezza rispetto ai dati statistici dai quali sono partito Ma vorrei spiegare meglio che cosa significa la mia fretta di volere raggiungere subito dei risultati. Mario De Andrade ha scritto un testo bellissimo nel quale mi rispecchio in pieno. Si intitola La mia anima ha fretta. Spiega come si trova in un momento della sua vita in cui si rende conto che ha trascorso più anni di quanti gliene restano da vivere. Per questo vuole godersi fino in fondo quelli che gli rimangono, dare un senso a ogni cosa, non perdere tempo in questioni inutili e vivere l’essenza delle cose. Come un bambino che si mangia una scatola di cioccolatini e, a un certo punto, si accorge che stanno finendo e allora decide di gustarli più intensamente. Ci dice che è l’essenziale che fa valer la pena di vivere. Conclude dicendo che abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che nei hai solo una.

Io ho 59 anni, sicuramente ho vissuto più anni di quelli che mi restano da vivere. Cerco di dedicarmi all’essenziale che si nasconde nelle piccole e nelle grandi cose della mia vita. Non è facile, perché questo mondo ci riempie di cose inutili, ma voglio vivere così. E per me è essenziale lottare ogni giorno contro quei numeri che ho prima indicato. Voglio avere sempre con me il biglietto della metropolitana, voglio sentirmi adeguato in questa mia vita, voglio portare sempre un pezzo di spago affinché qualcuno mi aiuti, quando ne ho bisogno, a uscire dalle mie ferite, e voglio porgerlo a chi ne ha bisogno. Prima di finire l’ultimo cioccolatino.



 

 PAOLO ROZERA 

BIONOTA Paolo Rozera è Direttore Generale dell’UNICEF Italia dal 2015. Ha condotto diverse missioni in Etiopia, Moldavia, Ucraina, Giordania, Libano, Mali, Iraq, Laos, Repubblica Democratica del Congo, Turchia, Afghanistan e Tunisia. Dal 1991, ha ricoperto vari ruoli nell’organizzazione, tra i quali quello di Responsabile dell’Ufficio Risorse Umane dal 2008. È stato docente presso la LUISS e ha conseguito laurea in Scienze Politiche a «La Sapienza”» e un Executive MBA presso la LUISS. Scout dall’età di 6 anni, è stato rappresentante della Scautismo Mondiale presso la FAO. Appassionato di moto e basket, vive a Frascati con la moglie Laura e i figli Lorenzo e Riccardo.

Commenti