Cesare Pavese a Brancaleone Calabro: viaggio e paesaggio come ricerca di sé e scoperta dell'altro ~ di Giovanna Romanelli (CRITICA LETTERARIA) - TeclaXXI
CRITICA LETTERARIA
Giovanna Romanelli
Cesare Pavese a Brancaleone Calabro:
viaggio e paesaggio come ricerca di
sé e scoperta dell’altro
Cesare Pavese è condannato dal regime fascista al confino a Brancaleone Calabro, dove giunge il 4 agosto 1935 e dove resterà fino a metà marzo del 1936. Questa esperienza, che sarà decisiva per lo sviluppo umano e letterario dello scrittore, comporta disagi fisici e morali: «sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri, scendeva con passo fermo, diretto al Municipio.
Il viaggio di due
giorni, con le manette e la valigia, è stata un’impresa di alto turismo. Ormai
il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso. Le stazioni di Napoli e
di Roma le ho attraversate nel momento di maggior traffico e bisognava vedere
come la gente faceva largo al sinistro terzetto.»[1]
Pavese all’inizio del
suo soggiorno a Brancaleone prova sentimenti contrastanti come si può evincere
dall’incipit del racconto Terra d’esilio: «Sbalzato per strane vicende
di lavoro proprio in fondo all’Italia, mi sentivo assai solo e consideravo
quello sporco paesello un po’ come un castigo - quale attende, una volta almeno
nella vita, ciascuno di noi -, un po’ come un buon ritiro dove raccogliermi e
fare bizzarre esperienze. […] Io sono un piemontese e guardavo con occhi tanto
scontrosi le cose di laggiù, che il loro probabile significato mi sfuggiva.
Mentre, gli asinelli, le brocche alla finestra, le salse screziate, gli urli
delle vecchiacce e i pezzenti, tutto ricordo ora, in modo così violento e
misterioso, che davvero rimpiango di non avervi messo un’attenzione più
cordiale. E se ripenso all’intensità con cui allora rimpiangevo i cieli e le
strade del Piemonte - dove ora vivo tanto inquieto -, non posso concludere
altro che così siam fatti: solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci
rivela il suo volto reale».[2]
Ben
presto Pavese scopre la disponibilità della gente del luogo e ne coglie la profonda
grecità:
«La gente di questi paesi è di un
tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la
civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un
morto, dicono «Este u’ confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che
io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento. […] Non bisogna dimenticare che costui girava,
come un’anima persa, Magna Grecia e isole, per amore della pagnotta, che allora
si chiamava ospitalità. Ebbene, ancora adesso questa gente è tale e quale e, se
non il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta.
Fa piacere leggere la poesia greca in terre
dove, a parte le infiltrazioni medievali, tutto ricorda
i tempi che le ragazze […] si
piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère. E dato che
il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile - una colonna
spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato - niente è
più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci.
Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rosa di leandri e
geranî, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline
spelacchiate brunoliva».[3]
Per dirla con Marc Augé, la vista di
queste rovine suggerisce a Pavese l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i
manuali di storia. È un “tempo puro”, non databile, estraneo al nostro
mondo di immagini, di simulacri, lontano dal nostro mondo violento che produce
solo macerie, macerie che non hanno più il tempo di diventare rovine.
A Brancaleone Pavese
ritrova a poco a poco le radici del mondo greco, non quello classico tramandato
dalla lettura che il Rinascimento e il neoclassicismo ci hanno consegnato, ma
quello arcaico, che è poi anche il mondo rievocato nelle tragedie, è il mondo
dello gnõthi seautón (nosce te ipsum), la massima religiosa
antica iscritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, che per l’uomo
arcaico significava avere la consapevolezza della morte, cioè l’etica del
limite. Credere nella morte per l’uomo greco arcaico significava non
oltrepassare la propria misura.
Dunque, a Brancaleone Cesare Pavese
riprende da autodidatta lo studio del greco e ciò è fondamentale per
l’educazione intellettuale dello scrittore. Le traduzioni dal confino non sono
un mero esercizio scolastico, una banale ripresa di una lingua trascurata dopo il
periodo universitario, perché traducendo, in parte o per intero, le tragedie di
Eschilo (Coefore) e di Sofocle (Filottete
ed Edipo re), alcuni libri dell’Iliade e dell’Odissea, poesie di Anacreonte e Bacchilide, Ibico, Mimnermo, Pindaro, Saffo,
egli affronta i temi nodali del macrocosmo greco.
Il viaggio a Brancaleone allora non
è solo un viaggio fisico verso una meta determinata, esso ha una forte carica
simbolica e metaforica: allude al viaggio in interiore homine, alla
ricerca di sé anche in relazione all’altro, è una discesa agli inferi della
propria coscienza per definire chi siamo e dove andiamo, è una sfida per la
conoscenza: infatti la conoscenza è una forma di azione, è il risultato di una
ricerca, e non possiamo dimenticare che la Magna Grecia, come la Grecia antica,
è patria di naviganti e il mare, quello di omerica memoria che lui definisce
quel «tratto di mare violaceo»,[4]
come il territorio stesso, non è uno sfondo su cui gli uomini agiscono ma è un
vero e proprio attante, un personaggio che agisce e interagisce con gli
individui e li trasforma, proprio come questi trasformano con la loro azione
antropica il territorio. Non possiamo non ricordare l’assoluta modernità della
visione pavesiana del modo di intendere il luogo, del suo senso e del posto che
esso occupa nella ricerca linguistica e letteraria dello scrittore. Il senso
del luogo in Pavese è consciousness, spazio vissuto, è essenziale perché
ci costituisce, è il dove sono che definisce il chi sono nella
lingua, nella cultura, nel nostro essere fatti delle pianure, delle colline,
del mare, del cielo, dell’aria, delle luminosità di una determinata terra.
Dello stretto legame
tra individuo e territorio è ben cosciente Pavese quando, durante il confino a
Brancaleone, scrive: «Questa sera, sotto le rocce lunari, pensavo come sarebbe
di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le
allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe. Subito mi sorprese la
coscienza che questo dio non c’è, che io lo so, ne sono convinto, e quindi
altri avrebbe potuto fare questa poesia, non io. […] Perché non posso trattare
io delle rocce lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio,
tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare
una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei però bene assorbirle in
un’immagine e dar loro un significato. Che viene a dire come il primo
fondamento della poesia sia l’oscura coscienza del valore dei rapporti, quelli
biologici magari, che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza
prepoetica. Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su
materia non piemontese di sfondo. Dev’essere, ma sinora non è stato quasi mai.
Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione
dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami d’origine con
l’ambiente: che, in atre parole, c’è nel mio lavorío poetico, un punto morto,
gratuito, un sottinteso materiale, di cui non mi riesce di far senza. Ma è poi
davvero un residuo oggettivo o sangue indispensabile?» [5]
Pavese, dunque, fin dal
1935 aveva compreso che la forza della creazione poetica risiede nella capacità
di saper fondere l’oggettività geografica-fattuale con la soggettività
culturale-umana, elementi che si completano a vicenda e che ci trasmettono appunto
il «senso del luogo» (che non va confuso col “genius loci”), che racchiude in
sé tutto il nostro passato.
A ben guardare anche le opere di
Pavese sono un viaggio, un work in progress, che presuppone
un’esplorazione, un percorso tra tentativi ed errori, che si conclude sempre
con un approdo, a volte non definitivo. Si pensi, ad esempio al ciclo di
racconti e poesie Ciau Masino (scritto tra il 1931 e il 1932, pubblicato
solo nel 1968 da Einaudi nel volume Racconti), dove i due protagonisti,
l’operaio Masin e il giornalista Masino, compiono un viaggio: l’uno verso il
carcere, ove sconterà la pena per l’uccisione della moglie, l’altro verso il
favoloso mondo dell’America.
Anche La bella
estate, che comprende tre romanzi (La bella estate 1940, Il
diavolo sulle colline 1948, Tra donne sole, 1949), presenta la
struttura di un viaggio di ricognizione che assume come punto di partenza e di
ritorno la città di Torino, punto cardine di un percorso umano e artistico, ma
anche luogo di confronto e di bilancio. È qui che Pavese scopre il proprio
sradicamento, la propria estraneità al territorio e alle persone. Anche i
capitoli finali del romanzo La casa in collina (1948) narrano diffusamente
il ritorno a casa del protagonista Corrado, ritorno che si configura
come salita verso luoghi impervi, ma anche come discesa verso il
ventre della Terra alla ricerca della propria identità.
Come non ricordare,
infine, l’ultimo romanzo, La luna e i falò del 1949, che possiamo
considerare il viaggio di ricognizione di Anguilla, il protagonista, un
trovatello che ha cercato fortuna in America e a quarant’anni ritorna al
proprio paese: le Langhe non sono solo il luogo di origine, il «centro», ma
sono soprattutto lo spazio antropologico capace di annullare il vuoto che ogni
uomo ha dentro di sé, è l’Heimat, la terra natale, il desiderio di dimora, l’aspirazione
alla felicità.
Ne La luna e i falò c’è un
forte riferimento alla morte e al silenzio, la luna e i falò sono simboli di un
paesaggio caro e terribile, testimoni silenziosi di un mondo in dissoluzione,
come attestano i continui riferimenti alla guerra. È da questo mondo che la
voce narrante e l’autore stesso prendono congedo: l’uno per riprendere il
proprio viaggio verso nuove terre, l’altro per chiudere infine il cerchio della
vita e della scrittura nel quale si sentiva dolorosamente intrappolato perché,
come ci ricorda Sartre, «on se défait d’une névrose, on ne se guérit pas de soi» (si può guarire da una
nevrosi ma non si può guarire da sé stessi).
[1] Lettera alla sorella Maria, 9
agosto 1935 in C. Pavese, Lettere
1924-1944, (Lorenzo Mondo a cura
di), Einaudi, Torino 1966, p. 422.
[2] C. Pavese, Sul mare. Terra
d’esilio e altri racconti, Les Flaneurs, Reggio Calabria 2022, p. 15.
[3] C. Pavese, Lettere 1924-1944,
Einaudi, Torino 1966, p. 489-490.
[5] C.
Pavese, Il mestiere di
vivere, (Marziano
Guglielminetti- Laura Nay a cura di), Einaudi, Torino, 2000, (10 ottobre 1935),
pp. 10-11.
GIOVANNA ROMANELLI
BIONOTA
Giovanna Romanelli laureata in Lettere classiche presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito la specializzazione in critica letteraria e artistica e ha collaborato col progetto IRIDE presso la medesima università. Ha insegnato presso la Sorbonne (Paris III), è stata membro del comitato scientifico della Fondazione Cesare Pavese e presidente della giuria del Premio Letterario che dello scrittore porta il nome.
Complimenti con leggerezza e precisione ci ha mostrato lo stupore e la riconoscenza di un uomo sradicato dalla propria terra e che che ha ricevuta calore e accoglienza e doni.Pienamente cosciente che ognuno di noi infine anela alle sue radici.Ma con gratitudine e voglia di capire e fare di un esilio u n 'opportunita' e forse qualche sprazzo di gioia.Almeno vorrei credete questo.Federica Lorusso
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