L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO (parte II) ~ di ROBERTO ZANATA (PENSIERO FILOSOFICO) - TeclaXXI

 PENSIERO FILOSOFICO 

L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO 

PARTE II*

di ROBERTO ZANATA  


Émile Benveniste & Martin Heidegger (composizione collage by fotoeffetti)


Se il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto, il semantico (il discorso) deve essere compreso. Questa differenza rinvia a due diverse attività dello spirito: “quella di percepire l'identità fra anteriore e attuale da una parte, e quella di percepire il significato di un’enunciazione nuova dall’altra”. Il semiotico si caratterizza, cioè, come una proprietà della lingua, mentre il semantico è l'effetto di un’attività del parlante che mette in moto la lingua. Bisogna quindi ammettere - conclude Benveniste - “che la lingua comporta due domini distinti ciascuno dei quali richiede un suo proprio apparato concettuale”.

In questo modo Benveniste conduce la scienza del linguaggio di fronte alla sua aporia suprema oltre la quale, nota Agamben, essa non può procedere se non trasformandosi in filosofia.  Se si tiene conto che l'uomo ha un'infanzia in quanto dimensione storica trascendentale, che l'uomo non è già da sempre un parlante e che per parlare ha bisogno di espropriarsi dell'infanzia costituendosi così come soggetto nel linguaggio, si capisce allora come egli non possa “entrare nella lingua come sistema di segni senza trasformarla radicalmente, senza costituirla in discorso”. Semiotico e semantico, nell'ottica di una teoria dell’infanzia, sono le condizioni di possibilità (i limiti trascendentali) a partire dalle quali si articola il linguaggio umano.

Se ciò è vero, nell’esperienza trascendentale del linguaggio, noi non facciamo allora semplicemente esperienza di un'impossibilità di dire, ma di un’impossibilità di parlare a partire da una lingua, che non è altro che un’esperienza della stessa facoltà e potenza di parlare.

Ne Il linguaggio e la morte (e in molti dei brevi saggi risalenti agli anni ’80) il luogo dell'esperienza trascendentale del linguaggio è fissato da Agamben nella differenza fra voce e linguaggio, in quanto questa esperienza consente di dischiudere una prospettiva etica (po-etica). Che cos'è nella voce umana, si chiede Agamben, che articola il passaggio della voce animale al logos, dalla natura alla polis? Nella poesia di Pascoli, per esempio, intesa agostinianamente come esperienza di un vocabolo morto, ciò che articola la voce sono i grammata, nel senso che la lettera è ciò che occupa già da sempre lo iato tra voce e linguaggio, la struttura originale della significazione. L'ipotesi di Agamben è, però, tutt’altra. Lo iato fra voce e linguaggio, come quella tra lingua e discorso, può, per lui, aprire lo spazio dell'etica e della polis precisamente perché non vi è un'articolazione tra phoné e logos. Proprio in virtù del fatto che l'uomo si trova gettato nel linguaggio senza esservi portato da una voce, solo perché nell’esperienza trascendentale del linguaggio egli si rischia senza una grammatica, in questo vuoto e in questa “infanzia” qualcosa come un ethos e una comunità diventano per lui possibili. Parole di un filosofo (Wittgenstein) che allo studio del linguaggio ha dedicato tutta la sua vita, “l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell'esistenza del mondo, benché non sia alcuna preposizione della lingua, è l'esistenza del linguaggio stesso”.

Qual è allora l'espressione giusta per l'esistenza del linguaggio? La sola risposta possibile, per Agamben, è la vita umana in quanto vita etica. È sufficiente riflettere su queste conclusioni per rendersi conto che il luogo dell'esperienza del linguaggio, così come inteso da Agamben, implica necessariamente una nuova definizione dei confini nei quali si è soliti circoscrivere le competenze proprie specifiche della filosofia e della poesia. Determinante si pone in questa prospettiva il confronto con il pensiero dell'ultimo Heidegger, colui che più di ogni altro ha interpretato con la scrittura le difficoltà implicite nel carattere metafisico del nostro linguaggio. Esiste in tal senso un documento di primaria importanza, quale estrema testimonianza del significato della svolta heideggeriana verso il linguaggio, che sfocia in una ammissione senza precedenti di una confusione territoriale in cui filosofia e poesia vengono incidentalmente a coincidere quanto al loro ambito specifico.

Nel dicembre del 1941 Heidegger spedisce a Kommerell le pagine della sua conferenza dedicata all'inno di Hölderlin Come quando al dì festa…, e pochi giorni dopo Kommerell in una lettera indirizzata a Gadamer descrive così le sue impressioni a riguardo: “Heidegger mi ha inviato il suo testo. È un produttivo infortunio ferroviario a proposito del quale i casellanti della storia letteraria - se sono onesti - dovranno mettersi le mani nei capelli. Non posso decidermi a leggerlo come un’interpretazione - là avviene qualcosa…”. Rispondendo a Heidegger, qualche tempo dopo, sullo stesso argomento, Kommerell utilizza ancora l'immagine dell'infortunio e scrive: “E, se posso essere ancora franco dopo tanta sincerità, non potrebbe - non dico: è - non potrebbe il suo saggio essere un infortunio!?”. La replica di Heidegger, datata 4 agosto 1942, è un esplicito assenso all'ipotesi di Kommerell: “Lei ha ragione, lo scritto è un infortunio. Anche Essere e Tempo è stato un incidente. E ogni esposizione immediata del mio pensiero sarebbe oggi il più grande infortunio. Forse è questa è una prima testimonianza del fatto che i miei tentativi si avvicinano a volte a un vero pensare. Ogni pensiero sincero è, a differenza del poeta, nel suo effetto immediato un infortunio. Da ciò capirà che io non posso in nessun caso identificarmi con Hölderlin. Qui è in corso un confronto di un pensiero con un poeta, e solo il confronto pone il rispondente. È questo arbitrio o la più grande libertà?”.

Decisivo è qui, che Heidegger, nello stesso momento in cui sancisce il necessario naufragio del filosofo (nell’infortunio costitutivo del pensiero), indichi in un confronto tra filosofia e poesia l'esperienza cruciale del pensiero. Ciò di cui si tratta di fare esperienza, dopo di allora, come testimoniano gli innumerevoli sforzi contenuti nelle conferenze heideggeriane su L'essenza del linguaggio, non è più di oggetti o cose significate (esperienze di linguaggio), ma del linguaggio stesso (“portare il linguaggio in quanto linguaggio al linguaggio”). Quel che resta da fare, scrive Heidegger, è “indicare le vie che conducono alla possibilità di fare un'esperienza del linguaggio […]. Nelle esperienze che facciamo del linguaggio è il linguaggio stesso che si fa parola []. Ma dove il linguaggio, come linguaggio, si fa parola? Pare strano, ma dove noi non troviamo la giusta parola per qualche cosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma […].”

Chi può, dunque, in questi momenti, farci dono della parola appropriata? Il poeta può giungere proprio a questo: “a dover portare a parola, in modo autentico, che è quanto dire poetico, l’esperienza che fa del linguaggio”. Poetare e pensare abitano in una prossimità che li avvicina l’uno all’altro e che Heidegger definisce “il Dire originario (Sage)”. Il raccogliere ogni cosa di questo Dire originario è silenzioso, come il suono della quiete, e “un “è” appare là dove la parola viene meno”. Solo là dove il linguaggio fa ritorno nello stupore del silenzio (uno stupore che ricorda molto da vicino l’esperienza del mondo di Wittgenstein), esso corrisponde al suo luogo originario. Questo venir meno della parola è, per Heidegger, “l’autentico passo a ritroso sul cammino del pensiero”.

 

 Bibliografia di riferimento

 

G. Agamben, Infanzia e Storia, Torino, Einaudi, 1978.

G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino, Einaudi, 1982.

G. Agamben, La comunità che viene, Torino, Einaudi, 1990.

G. Agamben, Pascoli, esperienza della lettera, “Alfabeta”, n. 20, Milano, 1981.

G. Agamben, Il silenzio delle parole, in I. Bachmann, In cerca di frasi vere, Bari, Laterza, 1989.

W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Torino, Einaudi, 1978.

E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Saggiatore, 1994.

M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1990.

L. Wittgenstein, Lezioni e Conversazioni, Milano, Adelphi, 1992.

 

ROBERTO ZANATA 


BIONOTA 

Nato a Cagliari, Roberto Zanata ha studiato Filosofia, Composizione e Musica Elettronica diplomandosi presso l’Università e il Conservatorio di Cagliari. 
Ha partecipato nel 1996 agli Internationale Ferienkurse fur Neue Musik di Darmstadt, È direttore organizzativo del Festival Spaziomusica (Cagliari). 
Le sue opere sono state eseguite nei più importanti Festival Internazionali di musica contemporanea e premiate in Francia, Germania, Messico e Polonia. Docente e coordinatore di dipartimento della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio di Cesena.






















*LA PRIMA PARTE È STATA PUBBLICATA DA TeclaXXI IL 19/09/2024

Commenti

  1. Questo scritto forse più di altri,non di tutti ovviamente,mi ha toccato profondamente.Grazie.F.L.

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