L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO (parte II) ~ di ROBERTO ZANATA (PENSIERO FILOSOFICO) - TeclaXXI
PENSIERO FILOSOFICO
L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO
PARTE II*
di ROBERTO ZANATA
Se il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto, il
semantico (il discorso) deve essere compreso. Questa differenza rinvia a due
diverse attività dello spirito: “quella di percepire l'identità fra anteriore e
attuale da una parte, e quella di percepire il significato di un’enunciazione
nuova dall’altra”. Il semiotico si caratterizza, cioè, come una proprietà della
lingua, mentre il semantico è l'effetto di un’attività del parlante che mette
in moto la lingua. Bisogna quindi ammettere - conclude Benveniste - “che la
lingua comporta due domini distinti ciascuno dei quali richiede un suo proprio
apparato concettuale”.
In questo modo Benveniste
conduce la scienza del linguaggio di fronte alla sua aporia suprema oltre la
quale, nota Agamben, essa non può procedere se non trasformandosi in filosofia. Se si tiene conto che l'uomo ha un'infanzia
in quanto dimensione storica trascendentale, che l'uomo non è già da sempre un
parlante e che per parlare ha bisogno di espropriarsi dell'infanzia
costituendosi così come soggetto nel linguaggio, si capisce allora come egli
non possa “entrare nella lingua come sistema di segni senza trasformarla
radicalmente, senza costituirla in discorso”. Semiotico e semantico, nell'ottica di una teoria dell’infanzia, sono le
condizioni di possibilità (i limiti trascendentali) a partire dalle quali si
articola il linguaggio umano.
Se ciò è vero,
nell’esperienza trascendentale del linguaggio, noi non facciamo allora
semplicemente esperienza di un'impossibilità di dire, ma di un’impossibilità di
parlare a partire da una lingua, che non è altro che un’esperienza della
stessa facoltà e potenza di parlare.
Ne Il linguaggio e la morte (e in molti dei brevi
saggi risalenti agli anni ’80) il luogo dell'esperienza trascendentale del
linguaggio è fissato da Agamben nella differenza fra voce e linguaggio, in
quanto questa esperienza consente di dischiudere una prospettiva etica
(po-etica). Che cos'è nella voce umana, si chiede Agamben, che articola il
passaggio della voce animale al logos, dalla
natura alla polis? Nella poesia di Pascoli, per esempio, intesa
agostinianamente come esperienza di un vocabolo morto, ciò che articola la voce
sono i grammata, nel senso che la lettera è ciò che occupa già da sempre
lo iato tra voce e linguaggio, la struttura originale della significazione.
L'ipotesi di Agamben è, però, tutt’altra. Lo iato fra voce e linguaggio, come
quella tra lingua e discorso, può, per lui, aprire lo spazio dell'etica e della
polis precisamente perché non vi è un'articolazione tra phoné e logos.
Proprio in virtù del fatto che l'uomo si trova gettato nel linguaggio senza
esservi portato da una voce, solo perché nell’esperienza trascendentale del linguaggio egli si rischia senza
una grammatica, in questo vuoto e in questa “infanzia” qualcosa come un ethos
e una comunità diventano per lui possibili. Parole di un filosofo (Wittgenstein)
che allo studio del linguaggio ha dedicato tutta la sua vita, “l’espressione
giusta nella lingua per il miracolo dell'esistenza del mondo, benché non sia
alcuna preposizione della lingua, è l'esistenza del linguaggio stesso”.
Qual è
allora l'espressione giusta per l'esistenza del linguaggio? La sola risposta
possibile, per Agamben, è la vita umana in quanto vita etica. È sufficiente
riflettere su queste conclusioni per rendersi conto che il luogo
dell'esperienza del linguaggio, così come inteso da Agamben, implica
necessariamente una nuova definizione dei confini nei quali si è soliti
circoscrivere le competenze proprie specifiche della filosofia e della poesia.
Determinante si pone in questa prospettiva il confronto con il pensiero
dell'ultimo Heidegger, colui che più di ogni altro ha
interpretato con la scrittura le difficoltà implicite nel carattere metafisico
del nostro linguaggio. Esiste in tal senso un documento di primaria importanza,
quale estrema testimonianza del significato della svolta heideggeriana verso il
linguaggio, che sfocia in una ammissione senza precedenti di una confusione
territoriale in cui filosofia e poesia vengono incidentalmente a coincidere
quanto al loro ambito specifico.
Nel dicembre del 1941 Heidegger spedisce a Kommerell le
pagine della sua conferenza dedicata all'inno di Hölderlin Come quando al dì festa…,
e pochi giorni dopo Kommerell in una lettera indirizzata a Gadamer descrive
così le sue impressioni a riguardo: “Heidegger mi ha inviato il suo testo. È un
produttivo infortunio ferroviario a proposito del quale i casellanti della
storia letteraria - se sono onesti - dovranno mettersi le mani nei capelli. Non
posso decidermi a leggerlo come un’interpretazione - là avviene qualcosa…”. Rispondendo a Heidegger, qualche tempo dopo, sullo stesso argomento,
Kommerell utilizza ancora l'immagine dell'infortunio e scrive: “E, se posso
essere ancora franco dopo tanta sincerità, non potrebbe - non dico: è - non
potrebbe il suo saggio essere un infortunio!?”. La replica di Heidegger, datata
4 agosto 1942, è un esplicito assenso all'ipotesi di Kommerell: “Lei ha
ragione, lo scritto è un infortunio. Anche Essere e Tempo è stato un
incidente. E ogni esposizione immediata del mio pensiero sarebbe oggi il più
grande infortunio. Forse è questa è una prima testimonianza del fatto che i
miei tentativi si avvicinano a volte a un vero pensare. Ogni pensiero sincero
è, a differenza del poeta, nel suo effetto immediato un infortunio. Da ciò capirà
che io non posso in nessun caso identificarmi con Hölderlin. Qui è in corso un confronto di un pensiero con un
poeta, e solo il confronto pone il rispondente. È questo arbitrio o la più grande
libertà?”.
Decisivo è qui, che Heidegger, nello stesso momento in cui
sancisce il necessario naufragio del filosofo (nell’infortunio costitutivo del
pensiero), indichi in un confronto tra filosofia e poesia l'esperienza cruciale
del pensiero. Ciò di cui si tratta di fare esperienza, dopo di allora, come
testimoniano gli innumerevoli sforzi contenuti nelle conferenze heideggeriane
su L'essenza del linguaggio, non è più di oggetti o cose significate
(esperienze di linguaggio), ma del linguaggio stesso (“portare il linguaggio in
quanto linguaggio al linguaggio”). Quel che resta da fare, scrive Heidegger, è
“indicare le vie che conducono alla possibilità di fare un'esperienza del
linguaggio […]. Nelle esperienze che facciamo del linguaggio è il linguaggio
stesso che si fa parola […]. Ma dove il linguaggio, come linguaggio, si fa parola?
Pare strano, ma dove noi non troviamo la giusta parola per qualche cosa che ci
tocca, ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma […].”
Chi può, dunque, in questi momenti, farci dono della parola
appropriata? Il poeta può giungere proprio a questo: “a dover portare a parola,
in modo autentico, che è quanto dire poetico, l’esperienza che fa del
linguaggio”. Poetare e pensare abitano in una prossimità che li avvicina l’uno
all’altro e che Heidegger definisce “il Dire originario (Sage)”. Il
raccogliere ogni cosa di questo Dire originario è silenzioso, come il suono
della quiete, e “un “è” appare là dove la parola viene meno”. Solo là dove il linguaggio
fa ritorno nello stupore del silenzio (uno stupore che ricorda molto da vicino
l’esperienza del mondo di Wittgenstein), esso corrisponde al suo luogo
originario. Questo venir meno della parola è, per Heidegger, “l’autentico passo
a ritroso sul cammino del pensiero”.
Bibliografia di riferimento
G. Agamben, Infanzia e Storia, Torino, Einaudi,
1978.
G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino,
Einaudi, 1982.
G. Agamben, La comunità che viene, Torino, Einaudi,
1990.
G. Agamben, Pascoli, esperienza della lettera,
“Alfabeta”, n. 20, Milano, 1981.
G. Agamben, Il silenzio delle parole, in I. Bachmann,
In cerca di frasi vere, Bari, Laterza, 1989.
W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Torino, Einaudi,
1978.
E. Benveniste, Problemi di linguistica generale,
Milano, Saggiatore, 1994.
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio,
Milano, Mursia, 1990.
L. Wittgenstein, Lezioni e Conversazioni, Milano,
Adelphi, 1992.
ROBERTO ZANATA
*LA PRIMA PARTE È STATA PUBBLICATA DA TeclaXXI IL 19/09/2024
Questo scritto forse più di altri,non di tutti ovviamente,mi ha toccato profondamente.Grazie.F.L.
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