L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO (parte I) ~ Roberto Zanata (PENSIERO FILOSOFICO) - TeclaXXI

PENSIERO FILOSOFICO 

L'ESPERIENZA TRASCENDENTALE DEL LINGUAGGIO 

PARTE I

di ROBERTO ZANATA 





Negli anni fra la stesura di Infanzia e storia (1978) e Il linguaggio e la morte (1982) fino alla pubblicazione del primo testo di carattere etico politico La comunità che viene (1990), Agamben lavora a una lunga serie di mini-saggi che attestano, come una specie di cera persa delle opere citate, il progetto di un'opera rimasta ostinatamente incompiuta dedicata al tema della voce umana. L'interrogazione cruciale che li accomuna può essere espressa nel modo seguente: “Esiste una voce umana, una voce che sia voce dell'uomo come il frinito è la voce della cicala? E, se esiste, è questa voce il linguaggio? Qual è il rapporto fra voce e linguaggio? E se qualcosa come una voce umana non c’è, in che senso l'uomo può ancora essere definito come il vivente che ha il linguaggio?”. Agamben ritorna su un’antica interrogazione filosofica (vedi lo stoicismo) che considera il problema della voce e della sua articolazione come il problema per eccellenza della filosofia.

Nelle pagine introduttive a ll linguaggio e la morte, anticipando il tema precipuo dell'opera come un’interrogazione sul luogo e la struttura della negatività, Agamben scrive: “La risposta a questa domanda conduce il seminario - attraverso la definizione della sfera di significato della parola essere e degli indicatori delle enunciazioni che ne costituiscono parte integrante - a una rivendicazione del problema della Voce e della sua “grammatica” come problema metafisico fondamentale”. L’attenzione di Agamben si concentra proprio sul senso di questa rivendicazione e ripercorrere luoghi poetici e filosofici in cui con maggiore evidenza sembra si possa scorgere la sua peculiarità specifica.

Si può affermare che è una riflessione sull'infanzia ad aver condotto Agamben a una ricerca sulla voce umana. L’uomo, come Heidegger ha chiarito, non è l'animale razionale dotato della facoltà del linguaggio, ma proprio l'essere vivente che ne è privo e che deve quindi riceverlo dall’esterno. Sono gli animali, contrariamente al pensiero comune, a essere già da sempre nella lingua senza interruzioni né fratture. Si provi a immaginare un uomo che nascesse già provvisto di linguaggio, un uomo che fosse già da sempre parlante. Per un tale uomo senza infanzia, cioè “immediatamente unito alla sua natura”, non vi sarebbe alcuna scissione fra lingua e parola. Un tale uomo non potrebbe essere un essere storico. Nel divenire storico della lingua è invece proprio il fatto che l'uomo abbia un’infanzia, l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che sia già da sempre un infante e la sua presenza originariamente differita e spezzata che consente che un significare si apra per lui e che fa di lui un essere storico.

Con il termine infanzia è evidente, in questo contesto, che non debba intendersi l'indicazione di un fatto di cui si potrebbe isolare il luogo cronologico e quindi un fatto umano indipendente dal linguaggio. Ogni tentativo di cogliere il linguaggio dal di fuori è fatalmente destinato a essere messo in scacco. Neanche esso dovrà essere preso in considerazione come un tentativo di Agamben di pensare i limiti del linguaggio in direzione di un ineffabile o di un irrelato (categorie che appartengono anch'esse unicamente al linguaggio umano). Al contrario, il concetto di infanzia è accessibile, secondo Agamben, solo a un pensiero che abbia compiuto quella purissima eliminazione dell’indicibile nel linguaggio di cui parla Benjamin in una lettera indirizzata a Buber. La singolarità che il linguaggio deve significare non è un ineffabile ma il massimamente dicibile, la cosa del linguaggio.

L'origine del linguaggio, considerata dal punto di vista dell’infanzia, deve dunque essere intesa nei termini di un archievento, in quanto “unità-differenza di invenzione e dono, umano e non umano, parola e infanzia”. Unorigine che non è niente di astratto e puramente ipotetico, anche se, come si è scritto, non potrà mai essere ridotta a fatti o circostanze che si possono ritenere storicamente avvenuti, bensì a qualcosa che non ha ancora cessato di avvenire. Si tratta della dimensione “di una storia trascendentale” che costituisce allo stesso tempo “il limite e la struttura a priori di ogni conoscenza storica”. In questo senso, Babele l'uscita dalla pura lingua edenica e l'ingresso nel balbettio dell'infanzia è proprio l'origine trascendentale della storia.

Per questo motivo, l'infanzia trova il suo il suo luogo logico, il suo topos, in un'esposizione del rapporto fra esperienza e linguaggio, che è poi un'esperienza trascendentale. Per Agamben, uno dei compiti più urgenti del pensiero contemporaneo è la ridefinizione del concetto di trascendentale in funzione dei suoi rapporti con linguaggio. Trascendentale indica, dunque, un'esperienza che si sostiene soltanto nel linguaggio, un’esperienza che è implicata tutta nei logoi.

Ma come è possibile fare esperienza del linguaggio stesso, del puro fatto che si parli, che vi sia linguaggio? Nelle conferenze sull'Essenza del linguaggio, Heidegger parla di fare esperienza con il linguaggio. Noi facciamo propriamente questa esperienza, secondo Heidegger, là dove i nomi ci mancano, dove la parola si spezza sulle nostre labbra (“il cammino a ritroso sulla via del pensiero”). La scommessa dell’infanzia si differenzia da Heidegger, però, nel momento in cui afferma che del linguaggio sia possibile un'esperienza che non sia solo semplicemente una sigetica, “ma della quale sia possibile, almeno fino a un certo punto, indicare ed esibire il luogo e la formula”.

In Infanzia e storia, Agamben situa il luogo di una simile esperienza trascendentale nella differenza fra lingua e parola o, meglio, nei termini di Benveniste, tra semiotico e semantico. Quest'ultima consiste in una distinzione del tutto diversa da quella proposta da Saussure tra lingua e parola, e si propone piuttosto come un tentativo di risposta al mistero dell'evento che determina nel linguaggio il passaggio dal piano della lingua a quella del discorso.

Con semiotico Benveniste intende precisamente il modo di significazione precipuo del “segno” linguistico, ciò che lo costituisce in quanto unità. Poiché, se è possibile, per le necessità dell’analisi, scindere le due facce del segno, dal punto di vista della significazione esso è unità e resta unità. “Di questo almeno siamo sicuri, scrive Benveniste, la lingua è fatta di unità e queste unità sono dei segni”. La domanda che il segno suscita è perciò quella che riguarda la sua esistenza “ed essa si decide con un sì o con un no”. Il segno esiste quando è riconosciuto come significante dall'insieme dei membri della comunità linguistica.

Il semantico, invece, è quel modo di significazione generato dal “discorso”. I problemi che esso implica sono funzioni della lingua in quanto a produttrice di messaggi. Esso si identifica con il mondo dell'enunciazione e con l'universo di discorso. (continua)


ROBERTO ZANATA 


BIONOTA 

Nato a Cagliari, Roberto Zanata ha studiato Filosofia, Composizione e Musica Elettronica diplomandosi presso l’Università e il Conservatorio di Cagliari. 
Ha partecipato nel 1996 agli Internationale Ferienkurse fur Neue Musik di Darmstadt, È direttore organizzativo del Festival Spaziomusica (Cagliari). 
Le sue opere sono state eseguite nei più importanti Festival Internazionali di musica contemporanea e premiate in Francia, Germania, Messico e Polonia. Docente e coordinatore di dipartimento della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio di Cesena.

 


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