In attesa della ristampa di un fondamentale glossario gaddiano (II parte) ~ di Gualberto Alvino (CRITICA LETTERARIA) - TeclaXXI

 CRITICA LETTERARIA




Gualberto Alvino

 

In attesa della ristampa

di un fondamentale glossario gaddiano

Parte Seconda*

      Uno dei pregi d’una siffatta indagine filologico-linguistica, vero e proprio close-reading, è che essa ha consentito di individuare casi di parole-fantasma e di errori d’autore, o refusi, sinora sfuggiti a tutti gli editori del Pasticciaccio. Si consideri strugnoccolo ‘bitorzolo’, totalmente privo di riscontri letterarî e lessicografici; in romanesco è attestata la voce sbrugnoccolo, di identico significato, sicché non può che trattarsi d’errore di stampa: «un tipico caso di parola fantasma, accreditata oltreché dal gradit dal gdli, che la registra sulla scorta dell’attestazione gaddiana». O nizziche ‘soldi’, pure ignota al romanesco: è dunque «ipotizzabile che si tratti di un semplice refuso per ruzziche (usato da Gadda nel medesimo significato in una battuta dello stesso personaggio), originatosi da una cattiva lettura del manoscritto (nella scrittura a mano, le sequenze ru e ni possono essere piuttosto simili)».

     Un lavoro così imponente (si noti, tra l’altro, che il volume è arricchito da un’appendice in cui si spogliano ed esaminano dettagliatamente i dialettismi, i fiorentinismi, le voci disusate, i tecnicismi, le neoformazioni, i latinismi, i grecismi e i forestierismi del romanzo) non può non suscitare qualche perplessità (nella fattispecie, per la verità, in dosi tutt’altro che massicce, data la statura del critico-linguista).

     Nell’auspicata ristampa sarebbe forse miglior partito — ci sia concesso qualche marginalissimo suggerimento — evitare la tipizzazione dei lemmi, rispettando gli accenti apposti dal narratore, e soprattutto non accogliere nel glossario vocaboli quali notaro («Al di là del confessore, e notaro»), arcaismo plausibilissimo in Gadda, per giunta inserito in un luogo tonalmente elevato, e odori ‘insieme di erbe aromatiche’ («l’ora delle mozzarelle, dei formaggi […], degli odori, delle insalatine prime»), voce comunissima in italiano e situata in un contesto manifestamente non dialettale, ove si eccettui il meridionalismo — non già romaneschismo — mozzarelle.

     Quanto a squadre ‘piacere’, scrive Matt:

 

Nessun riscontro, né letterario né lessicografico, per quest’accezione; il romanesco sembra conoscere solo il significato di ‘guardare con insistenza’. Il contesto [«un brigadiere de li carabinieri: un palo che poco je squadrava, così rosso e nero, e che ce squadra poco un po’ a tutti, in certe circostanze»] fa ipotizzare che Gadda consideri l’accezione (peraltro ignota anche all’italiano) come propria del romanesco; si tratta verosimilmente di un errore.

 

Ma il verbo è familiarissimo ai nativi della capitale (e non solo) nell’accezione di ‘sconfinferare, andare a genio, aggradare, garbare’, lasciando stare che la frase «non mi squadra» restituisce in rete centinaia di risultati.

     Ed ecco come l’Autore analizza la voce tecco:

 

agg. di significato incerto (forse ‘tarchiato’): «Sei troppo racchia […]. E troppo tecca, sei». Nessun riscontro, né letterario né lessicografico. Difficile spiegare questa voce, che non risulta propria del romanesco ma è inserita in un discorso diretto di un personaggio dialettofono. Si tratterà di un errore di Gadda; ma rimane da decifrare la provenienza del termine, che forse potrebbe essere accostato al toscano tecchio, definito «grosso, badiale» in Fanfani 1863, anche considerando il fatto che la ragazza tecca era stata in precedenza definita dal narratore tracagnotta.

 

Esistono, invece, riscontri sia lessicografici sia letterarî (non romaneschi): gdli s.v.: «(técchio, tégghio), agg. (plur. m. –chi). Region. Grande, grosso. // Cecco del Pulito […]: Palpeggiando quel bel petto tecchio. // Gonfio per il cibo ingerito in quantità eccessiva. Giannini-Nieri […]: ‘Avere il corpo tecco o sentirsi tecco’: sentirsi pieno per troppo mangiare. […]».

     L’ultimo dubbio concerne tignoso:

 misero, di basso livello’: «in una catapecchiucola delle più tignose»; «vivevano là tra queli bottegari tignosi» […]. Nessun riscontro, né letterario né lessicografico, per questa accezione. L’aggettivo è comune in romanesco nei due significati indicati da una chiosa di Belli: «dicesi tanto a chi soffre di tigna, quanto a colui che pecca di ostinazione». Si tratterà di una voluta risemantizzazione, la cui romaneschità di base è quanto meno dubbia (l’aggettivo è infatti comune anche in italiano).

 


Sennonché il Treccani, oltreché «affetto da tigna» e «Avaro, spilorcio» (quest’ultimo perfetto per il secondo contesto), dà il significato di «Persona vile, dappoco, spregevole» (idem), riportando un esempio boccacciano: «io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi» (Decameron v, 10); mentre il gdli ha la seguente accezione: «Fatiscente, scalcinato, screpolato (un edificio)» (adattissima al primo caso), col seguente esempio: «quella morta collina che si estende lunga lunga a tramontana del mio paese, tutta cinta di spine e ruderi tignosi» (Vincenzo Cardarelli, Opere, Milano, Mondadori, 1981, p. 885).

* La prima parte è stata pubblicata da TeclaXXI il 4 ottobre 2024.

GUALBERTO ALVINO


BIONOTA

Scrittore e critico letterario, Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana, da Consolo a Bufalino, da Sinigaglia a D’Arrigo, da Balestrini a Pizzuto. Suoi scritti poetici, narrativi, critici e filologici appaiono regolarmente in riviste accademiche e militanti, di alcune delle quali è redattore e referente scientifico. Dirige la collana «Vallecchi / Italianistica» e collabora stabilmente con l’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) con recensioni e rubriche.

 

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