ARCHIVIO, PER NON DIMENTICARE (LINGUA ITALIANA) ~ di Silverio Novelli - TeclaXXI

 LINGUA ITALIANA

Maneggiare con cura –RUBRICA a cura di Silverio Novelli

Brevi cenni sull'origine, la storia e l'uso di alcune parole o locuzioni, soprattutto in italiano, ma non solo. Una carta d'identità delle parole che usiamo parlando e scrivendo, da secoli o da pochi anni, dalle pergamene al web, con esempi tratti da romanzi, poesie, teatro, cinema, lettere, pubblicità, quotidiani o altro.

 

Archivio, per non dimenticare

di Silverio Novelli

 


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Ai tempi dell’arconte

La parola archivio proviene dalle forme del latino tardo archīvu(m) e archīum, che, a loro volta, riprendono la parola greca arkhêion. Quest'ultima designava una residenza di magistrati, in particolare il palazzo dell'arconte, che, in età storica, era il supremo magistrato di Atene. L'arconte, probabilmente, teneva in deposito i suoi atti nell'arkhêion. Solo in epoca ellenistica possiamo dire che la parola greca e poi latina acquisisce il senso tecnico che, almeno in parte, ci appartiene ancor oggi. Archivio è una parola recuperata all'italiano dell'alta cultura nel periodo umanistico, verso la fine del Quattrocento, quando molti testi dell'antica cultura greca erano tornati disponibili in Europa anche e soprattutto grazie alla mediazione della civiltà araba.

 

Bene prezioso e fragile

Archivio significa 'raccolta di documenti privati o pubblici relativi a una persona, una famiglia, un ente, un comune, uno Stato, ecc.'. Una raccolta cresciuta con l'andare del tempo, nel corso dell'esistenza dell'individuo o del nucleo familiare o dell'attività dell'ente o istituzione.

Scriveva Francesco Guicciardini (1483-1549) nella sua Storia d'Italia: «Percosse una saetta la fortezza di Brescia: una barca mandata dal senato a portare danari a Ravenna si sommerse con diecimila ducati nel mare; l'archivio pieno di scritture attenenti alla repubblica andò totalmente in terra con subita rovina». Ricco di carte, immagini e oggetti in continuo aumento, che illustrano e certificano l’identità di persone, famiglie, comunità, istituzioni, territori, l’archivio è un bene tanto prezioso quanto fragile.

Gli archivi si distinguono in vari tipi: archivi pubblici e privati, comunali, provinciali, regionali, personali, di famiglia, professionali, d'impresa, sindacali, ecc. Le nuove tecnologie elettroniche e informatiche oggi permettono di creare archivi immateriali, ovvero digitali: i documenti (testi, immagini, filmati, audioregistrazioni) possono essere digitalizzati, conservati ed eventualmente consultati on line. Sin dall'inizio della sua comparsa, archivio designa anche il luogo fisico in cui viene raccolta e conservata la documentazione.  

 

Un deposito segreto

Come spesso succede nel caso di parole che designano luoghi o oggetti che contengono altri oggetti, la parola archivio si può ulteriormente allargare al significato figurato più ampio e meno determinato di 'luogo di raccolta'. Questo allargamento dell'orizzonte concettuale avviene già nel secolo del barocco, così generoso nel prodigare immagini. Scriveva il poeta napoletano Giovan Battista Marino (1569-1625) in un Idillio favoloso, mettendo in scena il mito di Proserpina: «Figlia, sì come il centro / del cor più volte dal tuo dolce figlio / saettato t'apersi, / così gli arcani interni / de' più chiusi pensier convien ch'io t'apra, / con quanto di secreto / dentro l'archivio cupo / de le leggi immortali ha scritto il Fato». Qui il padre degli dei, Giove, si rivolge a sua figlia Venere (il «dolce figlio» è Amore), dicendole che le schiuderà i segreti scritti dal Fato e racchiusi nell'archivio «cupo» delle leggi immortali, che non possono essere messe in discussione.

L'idea dell'archivio come luogo segreto in cui si depositano, come nascondendosi, beni ed entità spirituali o morali di grande, perfino terribile importanza, trova spazio, un po' mitigata, anche in tempi vicini a noi, nel romanzo Notturno indiano (1984) di Antonio Tabucchi: «Anche tu parli con te stesso, prima dentro di te, in silenzio, e poi chiaramente, articolando le parole in modo netto, come se tu le dettassi, come se l'acqua del fiume potesse registrarle e tenerle lì, in un archivio acquatico, affinché i fondali le conservino gelosamente fra i ciottoli, la sabbia e i detriti, e dici: la colpa».

 

Come funzionano in Italia

Oggi, in Italia, esistono 100 Archivi di Stato, che conservano gli archivi storici delle amministrazioni centrali e periferiche degli Stati preunitari e gli archivi delle amministrazioni periferiche dello Stato unitario, che vi sono versati una volta passati 30 anni dalla conclusione della pratica. Facendo un passo indietro, vediamo che l’archivio ha una sua vita. Prima è archivio corrente, quando è in uso e in continuo accrescimento; i fascicoli che lo compongono vengono conservati in locali facilmente accessibili o nella stessa stanza degli impiegati che li utilizzano. L’archivio di deposito (o intermedio) conserva i fascicoli relativi alle pratiche ormai concluse, che non servono più alle attività quotidiane ma che conviene conservare temporaneamente. Nell’archivio di deposito si seleziona anche la documentazione che vale la pena di conservare permanentemente e che è destinata a confluire – quella statale, come si scriveva più su, dopo 30 anni – nell’archivio storico. Gli archivi storici sono a tutti gli effetti beni culturali conservati nelle istituzioni dedicate (gli Archivi di Stato) o comunque in sezioni separate (nei comuni, nelle regioni, negli enti pubblici). Da strumenti e residui di una determinata attività pratica, diventano fonti per la conoscenza del passato e depositari della memoria collettiva.

 

Archiviare, il paradosso dell’enantiosemia

Se guardiamo più da vicino il verbo derivato da archivio, vale a dire archiviare, ci accorgiamo di un paradosso annidato nella stratigrafia semantica della parola. L’accezione primaria è ‘mettere in archivio un atto, dopo averlo registrato’, garantendo un luogo sicuro di custodia per un documento che, guardando al futuro, possa essere tratto alla luce alla bisogna, per (ri)conoscere il passato e renderlo disponibile a nuovi studi, analisi, interpretazioni. In forza però del frequente uso tecnico della parola in àmbito forense, archiviare viene a significare anche ‘passare all’archivio gli atti d’istruttoria di un reato la cui notizia sia risultata infondata’, degradando di fatto ciò che è stato archiviato a documento dimenticabile. Da qui, archiviare torna nella lingua comune ma spogliato di ogni ambizione documentaria e memoriale: dire che la pratica è stata archiviata significa dire che una cosa è stata fatta e non ci si pensa più, passando ad altro: «Archiviata la pratica Udinese, i ragazzi di Josè Mourinho preparano la sfida di domani sera contro il Servette» («La Repubblica», 29 novembre 2023, Sport, p. 11). Si tratta, lato sensu, di un caso di enantiosemia, non raro nella lingua italiana: la stessa voce, per via di trasformazioni, estensioni o specializzazioni semantiche successive, si ritrova a significare il contrario o quasi di quanto significava in origine (si veda per esempio il caso dell’aggettivo feriale).

Attenzione, quindi, ad usare l’archivio, e l’operazione dell’archiviare, in modo consapevole, riconoscendo le differenze di approccio e risultato.

 SILVERIO NOVELLI






BIONOTA

Silverio Novelli si occupa da molti anni di lingua italiana. Tra le altre cose, ha scritto una grammatica scolastica (a sei mani), un paio di dizionari di neologismi (a quattro mani) e altri testi di divulgazione linguistica (a due sole mani, finalmente, le sue).

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