Goya e il dottor Arrieta (NARRATIVA) ~ di Eduardo Rebulla - TeclaXXI
NARRATIVA
Eduardo Rebulla
Goya e
il dottor Arrieta
Nel 1819
Francisco Goya ebbe una violenta crisi di affanno (verosimilmente
un’insufficienza cardiaca acuta) che fu risolta grazie alle cure del dottor
Arrieta. Goya resterà talmente grato al suo medico da dedicargli dopo un anno
un quadro: Autoritratto con il dott.
Arrieta.
Il dipinto è
dunque insieme sia un ritratto del medico che lo soccorre che un autoritratto
del pittore ammalato e sofferente. Nella parte inferiore della tela si può
leggere la dedica: “Goya riconoscente al suo amico Arrieta: per la capacità e
l’attenzione con cui gli salvò la vita durante la sua acuta e pericolosa
malattia insorta alla fine del 1819 all’età di settantatré anni. Lo dipinse nel
1820”.
Non mi
interessa, partendo da questo dipinto, disquisire sul rapporto medico–paziente,
sulla loro possibile ma non semplice alleanza contro la malattia e la morte (lo
dice Ippocrate: “malato e medico lottano insieme contro la malattia”). O su
come nel tempo questo rapporto si sia modificato, probabilmente in peggio,
come sostengono i tanti che lamentano la scomparsa della dedizione professionale,
l’eccessivo distacco del medico dal malato, la disumanizzazione di una
Medicina divenuta ipertecnologica e autoreferenziale. Non mi interessa qui ed
ora, perché si tratta di un problema complesso che non può essere affrontato in
poche righe. E perché troppo spesso, parlandone, si indulge in nostalgici
rimpianti di un modello paternalistico, fatto di sostegno protezione e
solidarietà, che nella società liquida in cui viviamo è stato spazzato via
dalla velocità e dalle incombenze molteplici di una professione assillata da
preoccupazioni spesso distanti dalla cura diretta del malato (controlli di
qualità, appropriatezza, protocolli di intervento, audit clinici, attenta
pianificazione della dimissione, relazioni congressuali, aggiornamento
scientifico continuo). Oggi ad essere cambiato d’altra parte è anche il
paziente, che è divenuto un vero “esigente”, spesso informato – o deformato –
dai media (stampa, televisione, internet), sospettoso e diffidente e tuttavia
pronto a reclamare quel “medico globale” in grado di porre attenzione non solo
al suo corpo malato ma anche alla sua psiche.
No, quello
che mi interessa invece è il racconto contenuto nel dipinto: il dottor Arrieta
che seduto sulla sponda del letto sorregge il corpo di Goya e gli porge un
bicchiere con una medicina, forse un oppiaceo. Mi interessa la rappresentazione
della sofferenza, il modo in cui Goya immagina se stesso stremato, seduto nel
letto (in decubito semiortopnoico, come viene definito nel linguaggio medico),
il volto pallido e sudato, le palpebre congeste, gli occhi socchiusi, le mani
contratte ad afferrare il lenzuolo. Mi interessa la veste da camera del
pittore, la sua camicia aperta sul collo, il lenzuolo con l’orlo ricamato, la
coperta rossa, tutti elementi che parlano di un certo benessere materiale, di
una vanitas che mostra tutta la sua
pochezza di fronte alle tenebre che incombono – e circondano, e isolano, il medico
e il malato. Ecco, forse è proprio qui il senso di questo dipinto, le due
figure che lottano in primo piano e l’oscurità tutto attorno da cui emergono a
stento, fra i toni del bruno, ombra su ombra, i volti di tre donne, una delle
quali tiene fra le mani un libro. Che siano accompagnatrici dei defunti, prefiche
o rappresentazione delle parche, poco importa, perché in un modo o nell’altro
sono figure del transito, poste esattamente sul limite: fra il medico e il
malato in primo piano e le tenebre dense dello sfondo. E il medico è esattamente
lì, su quel confine, a sorreggere il malato per impedirgli di scivolare nel baratro.
Qualcuno ha
voluto considerare questo quadro simile a un ex voto, invece è l’apice di una
consapevolezza visionaria. Quando Goya ha dipinto questo omaggio aveva iniziato
la sua fuga dal mondo e aveva già incontrato la malattia, la febbre del corpo e
quella della mente. Il luogo, dove lo soccorre Arrieta è la sua camera da letto
alla Quinta del Sordo, la casa di campagna in riva al Manzanarre, con le pareti
decorate da quelle “pitture nere”, considerate dai più come finestre spalancate
sull’abisso e che sembrano invece delle visioni estreme, la realtà guardata
senza filtri, ad occhi nudi e feriti, occhi che non si lasciano (più) sedurre
dai cinguettii del mondo e che vedono oltre, in profondità, ben oltre la scorza
allettante, ben oltre gli abiti e le lenzuola ricamate, verso la nuda e cruda
verità. Se per K., il malinconico protagonista del Processo di Kafka, la menzogna è la regola del mondo, alla Quinta
del sordo tutto sembra dire che la morte è la regola del mondo, con tutta
l’assurdità e la malvagità che essa comporta. Di questo ci parla l’Autoritratto con il dott. Arrieta. Ce ne
parla anche se Goya è scampato alla morte e sente il bisogno di ringraziare il
suo medico. Per quest’altro poco di vita che gli è stato concesso, prima di
essere risucchiato dalle tenebre che si assiepano alle sue spalle.
E il dottor
Arrieta? Cosa pensa il dottor Arrieta mentre il suo amico e paziente è sulla
soglia. Lo sostiene, gli porge la medicina ma la sua espressione e il suo
sguardo sembrano persi altrove. Con una serenità che non può non stupire. Come
se l’esito di quella lotta fra il malato e la morte non dipendesse da lui. Come
se lui fosse lì per fare tutto quello che può fare, ma il resto, il passo
deciso, la bilancia che si sposta da una parte o dall’altra, non dipendesse da
lui ma dalla sorte. «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fugace,
l'esperienza fallace, il giudizio difficile. Bisogna che non solo il medico sia
pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli
astanti, le cose esterne». Non c’è alcuna certezza e il medico fa le cose che
devono essere fatte, questo dice Ippocrate e di questa fallibilità e
incompiutezza è consapevole Arrieta. Sa di essere soltanto una fragile diga che
si oppone alla malattia, alla morte. E lo fa con docilità, senza strepiti.
EDUARDO REBULLA
BIONOTA
Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi
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