Il verde - EAHPND (NARRATIVA) ~ di Livia Bazu - TeclaXXI



 NARRATIVA 



        John Everett Millais, Ophelia, 1851-1853, Tate Britain, London [public domain]


LIVIA BAZU


IL VERDE – EAHPND


 

Diana sentì il rumore delicato della porta scorrevole del laboratorio e si girò con un sussulto. Mark fece finta di tossire entrando, mentre lei abbassò lo sguardò e tolse le mani dalla sostanza verde, percorsa da fittissime costellazioni di microscopiche scintille, che riempiva l’ampia vasca che occupava quasi tutta la stanza. Sopra la vasca un enorme pannello a luce intensissima, come un sole quadrato. La sostanza le rimase scintillando sulle dita che tremavano in controluce, mentre i capelli le creavano intorno una disordinata aureola. Mark osservò il Verde.

“Ti ama.” Lei scosse la testa con un sorriso profondo e assente.

“Credi davvero che si tratti di amore?”

“Una sua forma, in un certo senso. Reagisce a te, prospera, si moltiplica e intensifica ogni sua attività in tua presenza”, osservò il medico-biologo. “Sì, è, diciamo, una forma di amore, in senso biologico… proto-amore. Proto-vita, proto-cellule, proto-amore”, aggiunse scherzando. Mark aveva fatto parte della squadra che aveva creato il Verde e adesso ne sorvegliava l’evoluzione nell’ambiente per cui era stato progettato, la Luna.

“Ma non è nemmeno propriamente un essere vivente…” Il tono della voce di Diana era quello di una donna incerta dei sentimenti di un uomo.

“Però non è materia inerte. E tu, tu sei viva.” Molto viva, prosegui mentalmente. Una poeta sulla Luna. Era stata la miglior pessima idea che la Capa avesse avuto. Invece della psicologa, la poeta, per assicurare il benessere delle loro anime nel duro isolamento della base lunare. Ma aveva finito per occuparsi più dell’anima del Verde. Il Verde aveva un’anima? Gli occhi di Mark caddero sul bordo della vasca. EAHPND. Ehhanced Artificial High-rate Photosynthetic Network Decubator. “È l’anagramma di Daphne, la ninfa che si trasformò in alloro, passando al regno vegetale…”, aveva commentato Diana quando lo aveva visto per la prima volta. “Appropriato”, si erano dichiarati d’accordo Hen e Sarah. Erano l’ingegnere genetico e la chimica della missione, avevano quasi sempre la medesima opinione su qualsiasi cosa ed erano quelli che meno soffrivano l’isolamento. Mark invece non era quasi mai d’accordo con loro ed era quello che era consumato dall’isolamento con più acidità. Sì, si disse, “acido” è la parola giusta, l’isolamento è acido. Diana aveva trovato la parola e avere la parola giusta rendeva l’acidità più sopportabile, anche se non era affatto meno acida. Pur essendo per preparazione e compiti più vicino a Hen e Sarah, Mark preferiva la compagnia dei tecnici – i due ingegneri, l’elettromeccanico, il pilota. E di Diana. Che fissava ipnotizzata la massa biominerale, il loro cyborg proto o post-vegetale, il Verde. Cloroblasti artificialmente potenziati, in una massa di proto-cellule con microimpianti elettronici a base di zirconio. Questi ultimi rendevano cangiantemente scintillante il Verde, per assorbire meglio tutte le frequenze luminose e produrre ossigeno più velocemente ed efficacemente di quanto lo si potesse fare con piante vere, anche geneticamente modificate per adattarle a quell’ambiente scarno ed estraneo alla vita. La serra produceva da mangiare, sia pure razionatissimo, ma ossigeno neanche abbastanza da rendere comodamente respirabile quello stesso ambiente. Il loro fabbisogno energetico, comunque, sia di cibo che di aria, era di molto ridotto grazie alla bassa gravità. Per la fame, che si manifestava spesso secondo i ritmi e i bisogni terrestri, prendevano pasticche blocca-appetito. Solo Diana non ne aveva avuto bisogno. Il suo appetito si era automaticamente adeguato. Per l’aria tutti si allenavano però almeno due ore al giorno a resistere all’atmosfera rarefatta della serra, equivalente a un’altitudine che superava l’Everest. Il futuro sulla Luna sarebbe stato così. Qui in laboratorio invece il Verde produceva da solo ossigeno per sentirsi a proprio agio, ed ossigenare i cubicoli per il sonno, dai quali il CO2 veniva fatto defluire qui attraverso speciali canali dotati di pompe a gradienti osmotici.

“Comunque reagisce alla musica e a certe onde cerebrali”, continuò Mark. “Perciò è sufficientemente vegetale, sebbene non sia propriamente una pianta, ma più un terreno di coltura di cellule proto-vegetali. Proto-cellule”, si corresse.

Diana ignorò la spiegazione. “Reagisce anche al contatto, alla pelle.”

“Non saprei, alla pelle propriamente non vedo come.”

“Lo sento.” Ah, già, lei sentiva i cambiamenti di stato del Verde che Mark monitorava con tutti i suoi complicatissimi aggeggi.

“Più facile che reagisca a quello che tu pensi o senti toccandola.” ToccandoLA? ToccandoLO? È maschio o femmina il Verde? Ovviamente non ha senso chiederselo, si rimproverò Mark, Diana mi sta contagiando. “Vieni con noi in superficie?”

“Andate a pulire i pannelli solari che dicevi ieri? Da quanto tempo è buio adesso lì?”

“Sì, dieci giorni terrestri”, rispose Mark ad entrambe le domande come se fossero una sola. Diana si ritirò come se avesse un pensiero segreto. “Andate tutti? Rimaniamo qui da soli?” Al plurale, lei e il Verde.

“No, ovviamente no, rimane Cristoff in sala controllo.” Con tutte le telecamere, pensò Diana. Lei e il Verde non erano mai soli. Un’increspatura di rifrazioni attraversò le scintille sulla superficie della vasca, che a volte scomponevano la luce come microprismi. O microdiamanti. A Diana venne in mente un quadro, di cui non ricordava l’autore – perché non lo ricordava? – un quadro che l’aveva sempre attratta: Ofelia morta, annegata, perfettamente distesa, galleggiando in uno stagno sommerso di foglie, muschio e fiori. Il movimento lucente nel Verde accelerò. Di chi era il quadro? Doveva essere di un’estrema, tragica malinconia, invece a Diana in qualche modo comunicava il segreto dell’universo e di qualcosa oltre la felicità.

Mark uscì per prepararsi al lavoro all’esterno, salutandola con un leggero tocco sulla spalla e osservando il suo profilo, dal naso troppo adunco, il mento troppo in dentro per essere anche imperfettamente bello e tuttavia… e tuttavia così… flessuoso? Come fa un viso ad essere flessuoso? Flessuoso era il corpo di Diana? Sì, certe volte, ma certe altre sembrava dinoccolato e impacciato. Tuttavia, quello sembrava il suo modo naturale di muoversi, inalterato nella gravità ridotta che metteva invece a dura prova il coordinamento motorio di chiunque, sebbene desse uno strano senso di euforia infantile. Insieme all’ebbrezza dell’altitudine da aria rarefatta, erano le condizioni psicofisiche tipiche del “proto-colono selenico”, che lui era incaricato di registrare con minuzia, ma che in Diana mostravano valori anomali. Certe volte sembrava una statua di sale, o un corpo carbonizzato da un’esplosione vulcanica. Solo lei riusciva a mantenere quella definitiva immobilità nella gravità lunare. Rimaneva per minuti ad osservare paralizzata la strana luce grigio-dorata dell’alba, quell’alba estranea, ostile e così preziosa, perché avveniva ogni 14 giorni terrestri, da uno dei pannelli trasparenti del loro igloo (lo chiamavano così, il corpo principale della base, ne aveva la forma). “Grigio-dorata”, l’aveva scritto lei. Stava insegnando a loro tutti ad affezionarsi all’ambiente selenico, legandolo all’anima con le parole, come legati all’anima sono i tramonti, le albe e le tempeste della Terra. Sì, anche le terribili tempeste in superficie, Diana aveva trovato dei richiami antichi con cui dar loro senso nello scorrere del tempo nei loro corpi, legarle alle loro nostalgie, alle loro prigionie, alla loro paura dell’infinito e della morte lontano da casa. Sì, la Capa aveva ragione, una poeta faceva meglio di una psicologa sulla Luna. Inoltre, le poesie di Diana stavano spopolando nell’Arcipelago terrestre, una trovata geniale anche dal punto di vista economico-mediatico. Tutti volevano sapere, vedere, e poi donare. Tutti guardavano la Luna, tutti quelli che avevano un telescopio cercavano l’igloo, tutti si immaginavano di poterci un giorno andare. E donavano. Non si può più dire “«Non voglio mica la luna», diceva un verso di Diana - ce ne erano anche di ironici. E la gente si sentiva la Luna in tasca e donava.

Ma poi la grande scoperta, quella del tutto imprevista, era stata la relazione (la relazione? Sì, la relazione!) di Diana con il Verde. Il Verde brillava in sua presenza, i nanocristalli di zircone emettevano certi ondeggiamenti di luce e l’attività fotosintetica ed elettrica aumentava, soprattutto se lei lo toccava. Quel che era ancora più strano era il turbamento che a Diana stessa dava questa interazione. Cambiava di pensiero e d’umore, emetteva anche lei strane onde cangianti negli occhi e nella postura del corpo, cui seguivano altre alterazioni nell’attività del Verde. Comunicavano. Che cosa esattamente Diana non riusciva ancora a metterlo nemmeno in versi. Ma doveva.

Prese due tovagliette sterilizzate monouso e coprì le telecamere. Con buona pace di Cristoff, che non si alzò, non andò a controllare, non fece niente, tranne prendere atto che Diana e il Verde avevano bisogno di privacy. Si spogliò e mise un piede e poi l’altro nella vasca. Profonda meno di trenta centimetri, esattamente quanto serve perché dall’alto, pensò, io sembri semi-immersa come l’Ofelia del quadro. Il Verde era frizzante sulle caviglie, e quel torpore frizzante la avvolse man a mano che ci si adagiava dentro, fino a diventare una specie di dolcissimo bruciore, luce da percepire con la pelle, luce che mordicchia con miriadi di scosse così piccole e pervasive da addormentare e svegliare allo stesso tempo. La nuca soprattutto, la base del cranio, come se lì ci fosse un globo radiante da cui partiva un’onda inarrestabile di nanometeoriti che la percorreva da capo a piedi. Era come essere dentro le Pleiadi, come essere le Pleiadi!

Cominciò a sentire le cellule del suo corpo, a percepirle, come ci si sente un braccio o un dente o, meglio, un polpastrello – sì, polpastrelli, chi sa perché le cellule somigliano ai polpastrelli – tutte d’un tratto illuminate, come se qualcuno avesse acceso la luce per la prima volta in una grotta immensa. Una grotta morbida, piena di cunicoli, canali, cavità, un labirinto in cui liquidi e corpuscoli di muovono come gli esseri umani in una grande metropoli. Cominciò a percepire ognuno di quei movimenti contemporaneamente, la luce accesa in ogni casa-cellula, ogni formica-proteina che apriva la serratura della cellula pronta ad accoglierla, i globuli rossi che si rincorrevano per i capillari finché quelli si ristringevano al punto da farne passare uno solo...

In qualche modo si rese conto poi che il Verde si faceva permeare dalle cariche elettrostatiche e dalla temperatura del suo corpo, che faceva con lei tutto il suo viaggio nei caldi segreti cunicoli dei vasi sanguigni e linfatici, nelle caverne renali, nell’immensa cavità gastrica, nella rete neuronale. Soprattutto. La testa e la spina dorsale erano inondate di una luce che seppur caldissima non bruciava affatto. Come l’arbusto incandescente che parlò a Mosè. Sentì, come da molto lontano, gli strumenti di misurazione emettere suoni a frequenze mai registrate. Poi si rese conto che anche lei percepiva lo scorrere microelettrico nelle costellazioni del Verde, le correnti osmotiche nel suo volume, percepì con chiarezza, come se lo stesse toccando, tutto il contorno della vasca. Poi sentì il Verde che… la ringraziava o la abbracciava, qualcosa nei suoi flussi si stringeva intorno a lei e si tonificava, si riscaldava ancora… e riscaldava lei, dritto al cuore nel flusso sanguigno, nella temperatura del grembo e delle membra, fino al punto che anche i contorni della vasca sembrarono sparire, i suoi volumi e quello del Verde fusi e poi espansi senza più coscienza del laboratorio, delle telecamere oscurate, della curiosità di Cristoff, della nostalgia di Mark, dello scetticismo di Hen e Sarah, della divertita ammirazione di tutti gli altri, senza più coscienza dell’igloo, della Luna, della Terra all’orizzonte, del sistema solare tutto… Acqua e luce, completo abbandono in un bagno caldo, preghiera, un pomeriggio al mare, la teoria della relatività, l’inno alla gioia, i viaggi sciamanici, i versi di Whitman e Dickinson, il Nirvana, l’irrefrenabile risata che da bambina la prendeva quando il babbo le faceva il solletico per tutto il corpo o la faceva roteare per aria fino a farle venire il capogiro di felicità, lo slancio dell’altalena quando va troppo troppo su e sei appeso al cielo…

Era innegabilmente, meravigliosamente, un modo di fare l’amore. Amore? Proto-amore, post-amore, qualcosa prima, intorno e oltre l’amore. Il Verde non conosceva la parola, e non ne avrebbe mai avuto bisogno, aveva un modo di dire e di ascoltare che era allo stesso tempo precedente e ulteriore rispetto al linguaggio articolato. E quello che le stava dicendo il Verde, quello che insieme stavano scoprendo, era che l’Amore così come lo conoscono gli umani è solo una fascia molto stretta in uno spettro amplissimo, solo un piccolo passo in un cammino di miliardi di eoni nello spazio infinito, e così il sesso, il cibo, il sonno, l’attrazione delle masse stellari e galattiche, persino l’esser vivi o il non esserlo, l’esser materia o pensiero: tutti giochi, condensazioni ed espansioni, proto e post precipitazioni dell’Energia cosmica, che la si vedesse attraverso Einstein, Heisenberg, i Veda o l’incoscienza di un neonato, di un seme, di un atomo, poco importava. Era come se fino adesso avesse pensato che rami diversi di un albero fossero entità diverse, non avendone mai visto il tronco. Il Verde fu attratto dal pensiero vegetale, dall’idea del tronco, la stimolazione elettrica crebbe d’intensità su tutto il corpo e poi Diana non seppe davvero più la differenza tra lei che percepiva Sé stessa e il Verde che la percepiva, tra lei che percepiva il Verde e il Verde che scopriva di esistere attraverso la sua coscienza… non c’era più bisogno di sapere alcunché.

Non riuscirono più a risvegliarla. Tentarono per ore, per giorni, lunghissimi giorni lunari in cui il Verde cresceva intorno a lei rigogliosissimo, diligentissimo, più produttivo che mai. Le funzioni fisiologiche di Diana Kelter risultavano ottimali, Mark lo garantiva, e le onde cerebrali dimostravano che non solo era cosciente, ma lo era a un livello di concentrazione e stimolazione che solo il sesso, il parto, la tortura, le grandi avventure e performance artistiche, sportive o guerriere avevano mai registrato. Ma non fu mai più possibile farle aprire gli occhi o farla parlare, né separarla dal Verde.




podcast: il racconto letto dall'autrice




 LIVIA BAZU 


BIONOTA 

Livia Claudia Bazu (Bucarest, 1978) è poetessa e traduttrice italo-romena. Laureata nel 2003 in Letteratura comparata presso l’Università La Sapienza di Roma, nel 2008 consegue il Dottorato di ricerca in linguistica con la tesi Significare altrove: contaminazione e creatività nelle realtà interculturali italiane. 

Nel 2016 esce la sua raccolta Sull’orlo delle cose. Conduce laboratori di scrittura creativa interculturale, traduce e revisiona poesia e prosa dal 2003.

Fa parte della Compagnia delle Poete.






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