Tradurre la morte d’Achille, tradurre la distruzione d’Ilio: Ecuba di Nicola Antonio Manfroce (Parte Prima) (MELODRAMMA) ~ di Camillo Faverzani - TeclaXXI
Camillo Faverzani
Tradurre la morte d’Achille, tradurre la distruzione d’Ilio:
Ecuba di Nicola Antonio Manfroce
Parte Prima*
[Allestimento e Regia di Pier Luigi Pizzi]
Ardon gl’incensi al tempio;
Ivi le faci splendono
Giovanni Schmidt, Ecuba (II, 4)
Ecuba, tragedia per musica di Nicola Antonio Manfroce[1] (1791-1813), venne data il 13 dicembre 1812 al Teatro di San Carlo di Napoli. La sera del debutto, la compagnia include cantanti di prim’ordine, quali Maria Marchesini nella parte della protagonista, Marianna Borroni (Polissena), Manuel García (Achille), Andrea Nozzari (Priamo). Come nota il «Monitore delle Due Sicilie» nel numero del 22 dicembre, l’opera viene accolta con grande entusiasmo da parte del pubblico.[2] Nonostante qualche riserva riguardo alle due cantanti, il critico del periodico napoletano è particolarmente favorevole alla partitura, alla prestazione dei due ruoli maschili e dei cori, e tesse le lodi dei balli, dei costumi e della scenografia di Antonio Niccolini (DF, 112-113). Tuttavia, come lascia intendere Jeremy Commons,[3] si tratta soprattutto del trionfo personale del compositore, nel quale il pubblico riconosce l’uomo che ha lottato fino allo stremo contro una malattia incurabile, che progrediva parallelamente alla partitura. Un successo, ricorda Francesco Florimo, che gli frutta l’appoggio del re e della regina di Napoli, Giocchino e Carolina Murat, i quali gli attribuiscono rispettivamente una borsa per proseguire gli studi all’estero e la consultazione dei migliori medici del regno (FF2, 105). Invano. Lo sforzo sovrumano impostosi in una sorta di sfida con sé stesso avrà il sopravvento durante l’estate successiva. Ecuba viene comunque ripresa varie volte,[4] per poi scomparire per più di un secolo e mezzo.
[Archivio di Stato di Reggio Calabria]La sera del 19 febbraio 1978, al Teatro Sciarrone di Palmi, viene
eseguito qualche passo in un concerto al pianoforte, in cui sono proposti anche
brani tratti dall’Alzira; il 3
settembre 1980 e il 16 settembre 1989, si tengono due concerti diretti dal
maestro Davide Summaria, il primo nella Sala Accademica dell’Accademia Santa
Cecilia di Roma, il secondo sul sito archeologico di Pæstum; in ottobre-novembre
1990, si assiste alle rappresentazioni del Teatro Chiabrera di Savona, dirette
da Massimo De Bernart, autore della revisione della partitura (DF, 142-143, 151-152,
155-156, 157-158);[5]
e nell’estate del 2019 l’opera viene allestita al Festival della Valle d’Itria
di Martina Franca, con la direzione di Sesto Quatrini e la regia di Pier Luigi
Pizzi. Nel volume monografico dedicato al musicista, Domenico Ferraro cita pure
l’intervento del maestro Antonio Bacchelli al convegno del 9 maggio 1981,
organizzato dal Rotary Club di Palmi,[6] che regala al comune della località la
partitura rivista dal direttore d’orchestra. Questi presenta il lavoro svolto per
decifrare il manoscritto e per ricostituire l’orchestrazione, per la quale ha
proceduto considerando le differenze che compaiono talvolta tra la partitura
manoscritta e i versi, con la conseguente resincronizzazione tra parole e
musica, ai fini di una prima edizione a stampa (DF, 145-150). La pubblicazione
vedrà la luce solo nel 2017, ma a cura altrui.[7]
[Allestimento e Regia di Pier Luigi Pizzi]
Per quanto riguarda il poeta, il frontespizio del
libretto declina: «Originale francese del Sig. Milcent.|Traduzione del Sig.
Schmidt».[8] In effetti, l’opera è un
esempio eloquente della politica napoleonica di diffusione della cultura
francese in Italia, nella quale si iscrive pure il regno di Murat a Napoli. Il
titolo cui allude l’edizione napoletana è Hécube,
tragédie lyrique di Georges Granges
de Fontenelle (1769-1819), composta proprio su testo di Jean-Baptiste de
Milcent[9] (1747-1833), data a Parigi
presso il Théâtre de la République et des Arts, ex Académie royale de musique,
il 13 o il 15 fiorile dell’anno 8, cioè il 3 o il 5 maggio 1800.[10] Ma, nella storia della
lirica, la regina di Troia non è un personaggio operistico di primo piano.[11] Ci pare quindi
interessante considerare la doppia riesumazione del personaggio nell’arco di
poco più di dieci anni, quale esempio del gusto neoclassico tanto in voga
all’epoca, in particolare nella capitale partenopea.[12] Quanto al testo-fonte, il
catalogo della Bibliothèque Nationale de France annovera due diverse edizioni
dei versi di Milcent, una di quattro atti, una di tre.[13] A quanto pare, l’opera di
Parigi era stata progettata inizialmente in una versione più estesa, poi
ridotta a proporzioni più contenute, forse su richiesta del compositore, come
sembra confermare l’edizione musicale.[14] Secondo
Théodore de Lajarte, la «partition réussit, mais le poëme sembla long et
monotone : aussi à la troisième représentation la pièce fut réduite en
trois actes. Il semblerait même que la première forme de l’ouvrage ait été en cinq actes» (TL, 16). Tuttavia, se guardiamo un po’ più da vicino la
cosiddetta traduzione di Giovanni Schmidt[15] (1775?-1840?), ci
rendiamo conto che non si tratta affatto di una trascrizione servile
dell’archetipo.[16]
Analizzeremo quindi la tragedia per musica italiana, accostandola alle due
forme del modello francese, e ne considereremo sia i luoghi in cui si
incontrano, sia quelli in cui divergono; a tal scopo, studieremo dapprima la
struttura della trama, poi l’evoluzione dei personaggi, anche da un punto di
vista vocale, e torneremo in ultimo ai testi, in modo da far risaltare le
scelte metriche e retoriche degli autori.
I libretti del 1800 e del
1812 inscenano il dramma sia di Ecuba, sia di Polissena,[17] ma, per quanto ricorrano
a personaggi della tradizione omerica, le trame vengono esposte in modo
alquanto originale. Nel saggio dedicato alla presenza dell’opera francese nel
melodramma napoletano durante gli anni di Murat, Giovanni Carli Ballola parla
della «scadentissima pièce, che
stiracchia in tre atti gli alterni casi di un fidanzamento fra Achille e
Polissena, complicato dagli oscuri disegni di vendetta di Ecuba» (GCB, 314).
Come già rilevato dal critico del «Monitore delle Due Sicilie», il tratto di
carattere più spiccante della regina di Troia è sicuramente la sete di vendetta
(DF, 112). Sappiamo che nell’Iliade la
sposa di Priamo viene presentata come una figura piuttosto schiva. Eppure non è
nemmeno l’odio vendicativo del personaggio euripideo a motivare il ruolo
operistico, il quale non si accanisce più contro Polimestore e i figli,
considerati come responsabili della morte di Polidoro,[18] ma contro Achille, cui la
madre non perdona la morte del figlio Ettore (JC, 45). Tuttavia l’Ecuba del 424 a.C. non è del tutto scevra
da legami con le sorelle minori ottocentesche, dal momento che il sacrificio di
Polissena, reclamato da Achille, è l’argomento principale della parodos e dei due primi episodi (vv. 98-628).
Rievocazione reiterata nelle Troadi
(415 a.C.)[19]
e poi ripresa da Virgilio, da Ovidio e dallo Pseudo-Apollodoro, rispettivamente
nell’Eneide,[20] nelle Metamorfosi[21] e nella Biblioteca,[22] per poi far ritorno a
teatro con le Troades[23] di Seneca. Inoltre, diversamente
da quanto lascia intendere Fernando Battaglia (FB, 5), il prototipo di Milcent
e di Schmidt non sono neppure i versi di Jacopo Durandi per Ignazio Celoniati,
nei quali, pur sollevando la questione del sacrificio di Polissena, si tratta
perlopiù dell’amore della fanciulla per Pirro.
Strutturata in tre atti,
di quattro, sette e cinque scene, l’opera di Manfroce situa l’azione a Troia.
L’unità di luogo conosce però qualche derogazione alla regola, poiché dal
«Magnifico luogo destinato alle pubbliche udienze» dell’atto I, si passa agli
appartamenti di Polissena (II, 1), al tempio di Apollo (III, 1) e in un luogo
occulto del palazzo (III, 3). L’unità di tempo, invece, sembra venire
rispettata quasi involontariamente: se non si hanno vere e proprie allusioni ai
diversi momenti della giornata, gli eventi rappresentati possono ben svolgersi
nell’arco di ventiquattro ore. Nel focalizzarsi sulla vendetta di Ecuba, che
sfrutta il sentimento di Achille per la figlia, la trama non presenta nessuna
azione secondaria e, come nota giustamente Marco Maitan, procede in modo
piuttosto lineare verso il proprio obiettivo, reso esplicito fin dall’inizio
(MM, 174).
In attesa dell’arrivo di
Achille, per celebrare i giochi in onore di Ettore, e in apprensione per la
reazione della madre, Polissena confida a Teona l’amore, che nutre per l’eroe
greco, uccisore del fratello (I, 1). L’ingresso dei sovrani fornisce a Priamo l’occasione
di annunciare la fine delle sofferenze dei troiani e il ritorno alla pace,
garantita dalla figlia, mentre Ecuba, indignandosi, rievoca il ricordo del
figlio; colpita dalla reazione popolare, la regina finge di sacrificarsi per il
bene comune (I, 2). Giunge il capo degli elleni che inneggia alla propria
felicità per la prossima unione con la principessa (I, 3). L’atto si conclude
con il ballo in memoria di Ettore: sfilano gladiatori e soldati che portano le
armi del defunto, sacerdoti e sacrificatori, e soprattutto giovani inscenanti
la pantomima del guerriero che riconosce l’amata nella schiava messa in palio
per il vincitore dei giochi (I, 4).
Finalmente solo con
Polissena, Achille può confessarle apertamente la propria passione, per altro
corrisposta (II, 1). In una breve scena di transizione, Ecuba richiama il
prode, acclamato dal popolo (II, 2). Si ritrovano così madre e figlia, in una
scena sicuramente meno spensierata della precedente, poiché la prima ordina
alle seconda di approfittare della cerimonia nuziale per uccidere il nemico; la
fanciulla accetta il funesto sacrificio come un dovere (II, 3). Mentalmente
assente, Polissena deve compiere uno sforzo sovrumano per rispondere al giubilo
di Ifisa, di Teona e del coro di giovani giunte per scortarla fino all’altare
(II, 4). Rimasta sola, la principessa combatte contro la general letizia,
contrastante con il proprio accoramento (II, 5). Un nuovo incontro con Achille
suscita il risentimento dell’eroe, poiché l’amata gli appare ora piuttosto
titubante (II, 6). Il promesso sposo convoca allora Ecuba e Priamo, i quali
lamentano il comportamento della figlia, pur se per motivi diversi; innanzi a
tali intimazioni, Polissena si sottomette alla volontà unanime degli astanti,
mentre la madre le ricorda la promessa; il padre rassicura il pretendente, che desidera
affrettare l’imeneo (II, 7).
Si è già notato come il
finale II sia il momento in cui il libretto italiano si distacca maggiormente
dalla fonte francese (MM, 267, 302), particolare confermato dalla nota a pie’
di pagina di Schmidt, il quale segnala sia l’omissione di qualche verso, sia
l’aggiunta in corsivo di ottonari per il coro e per tutti i personaggi, nella
migliore tradizione del concertato all’italiana. Si aggiunga che, per ridurre
il testo da quattro a tre atti, Milcent interviene sugli atti II e III del
primo progetto, dando luogo alla maggior parte delle varianti tra le due
versioni francesi. In effetti, l’atto II si apre dapprima su «une partie
reculée des jardins de Priam» (II, 1), nei pressi della tomba d’Hector. Il
primo incontro tra Polixène[24] e Achille (II, 2) è
preceduto da una breve scena con Théone che annuncia sia l’arrivo dell’eroe,
sia la prossima venuta di Hécube (II, 1). Similmente, la transizione tra i due
dialoghi non si limita alle poche parole della regina, ma aggiunge anche un
breve scambio polemico, inerente alle non distanti spoglie del figlio (II, 3). Si
prolunga inoltre il colloquio tra le due donne, per permettere alla
protagonista di rinnovare la rimembranza della sorte di Ettore e di reiterare
il proprio scontento per la reciprocità del sentimento di Polixène (II, 4).
L’atto II si conclude con la reazione in disparte della madre, fiduciosa di
assistere alla vendetta della morte d’Hector (II, 5). È quindi l’atto III ad
aprirsi sugli appartamenti di Polixène, con la scena prima che corrisponde alla
quarta dell’atto II, sia della seconda versione, sia del testo italiano. La
breve meditazione appartata della principessa ne protraeva i tormenti per qualche
battuta, lasciandole solo l’alternativa di essere o una figlia ingrata o una
perfida amante (III, 2); la soppressione viene invece ripristinata nel libretto
del 1812. Al suo apparire, Achille si interroga sul motivo di un tale
isolamento in un giorno di festa e il nuovo incontro tra i due promessi si
articola in un più ampio sviluppo, durante il quale la coppia si rassegna ad
una separazione tanto straziante quanto incomprensibile, almeno per l’eroe
(III, 3). Tradotta e stampata tra virgolette, una parte di questi versi è conservata
in italiano, ma non è stata musicata da Manfroce. La scena quarta dell’atto III
si trova al posto del nuovo finale II (II, 7), con le modifiche che sappiamo
per la trasposizione di Napoli.
[Allestimento e Regia di Pier Luigi Pizzi]
Quasi immutato rispetto all’atto IV del progetto, l’atto III del 1800 va allora a confluire nell’atto III del 1812. Sui festeggiamenti generalizzati del coro vengono ad innestarsi le speranze di Priamo (III, 1). Però, quando Achille si accinge a condurre Polissena all’altare, compare Antiloco, che comunica la notizia del tradimento dei greci, invasori della città; il comandante non gli crede, ma Ecuba lascia scaturire il proprio odio e il popolo lo assale (III, 2). Assecondata dalle compagne, presso l’ara dei penati, Polissena piange la morte dell’amato (III, 3). Sopraggiungono il re e la regina in fuga: rimproverando alla moglie la propria crudeltà, il padre esorta la figlia a salvarsi (III, 4). Nel frattempo, entra uno dei capitani greci per vendicare la morte di Achille su Polissena, la quale viene rapita dai commilitoni; in preda al rimorso, la madre lancia un’ultima invettiva contro gli elleni, mentre nella città saccheggiata si ammucchiano i cadaveri e vengono incatenati i prigionieri; su uno sfondo in rovina, sfilano quindi diversi personaggi della leggenda, come Cassandra prigioniera, Corebo che tenta di liberarla, Enea fuggiasco con Anchise e Ascanio, mentre in ultimo la protagonista si immola tra le fiamme (III, 5).
Se minime sono le varianti
nel finale tra le due versioni francesi, è utile segnalare, nella seconda,
l’aggiunta della morte di Priam in scena (III, 5) e, in Schmidt, lo spazio concesso
all’estremo lamento di Polissena (III, 3). Inoltre, come segnala giustamente
Commons, che legge tra le righe della recensione del «Monitore delle Due
Sicilie» (JC, 46), sembra che il finale grandioso non sia stato rappresentato
per esteso, poiché se il
Dal critico del «Monitore
delle Due Sicilie» fino alle più recenti enciclopedie specializzate, la
letteratura manfrociana è unanime nell’inneggiare alle grandi doti d’invenzione
melodica del compositore. «La sua musica ha l’impronta della novità» (DF, 112),
leggiamo sul periodico napoletano, mentre Florimo riconosce in lui un vero
spirito innovatore, che probabilmente avrebbe anticipato di qualche anno la
rivoluzione musicale ottocentesca, e lo riscontra soprattutto nel percorrere la
partitura dell’Ecuba (FF2, 102, 103,
104). Nel considerare il linguaggio musicale di Manfroce, Maitan lo iscrive
nella dinamica culturale tipica dei periodi di transizione e definisce la
tragedia in musica quale un’opera di mediazione (MM, 297, 310), mentre Ferraro
ne sottolinea le innovazioni riguardanti l’orchestrazione (DF, 118). Tutte le
analisi ravvisano pure l’impronta della tragédie
lyrique francese, in particolare tramite le produzioni dei musicisti
italiani di Parigi. Sempre Florimo la paragona alla Vestale (1807) di Gaspare Spontini «che rappresentavasi in S. Carlo
nel 1809» (FF2, 103) – in realtà, l’8 settembre 1811 (FB, 4; CMR, 139), su
versi per altro tradotti dallo stesso Schmidt –, assurta rapidamente a modello
del giovane maestro. Ne conviene pure Carli Ballola, quando parla degli
«effetti traumatizzanti dell’ascolto del primo capolavoro spontiniano» (GCB,
312) ai fini del concepimento della «sperimentalistica Ecuba», situabile nella «terza via» aperta dal compositore di Maiolati,
«dove, contro uno sviluppo orizzontale di tipo melodico-armonico del materiale
tematico (come avviene nell’opera italiana) o contro la sua elaborazione di
tipo sonatistico e sinfonico (come avviene in Cherubini e in Beethoven),
s’inaugura una sorta di dilatazione intensiva di brevi cellule ritmico-tematiche,
attraverso la prassi della progressione armonica o quella della pressoché
testuale iterazione enfatica». Anche se, precisa Maitan, Manfroce «ricorre
quasi regolarmente a forme chiuse di struttura bipartita [...].
Fondamentalmente diverso rispetto, per esempio, alla Vestale è quindi l’equilibrio interno al complesso scenico, in
quanto il peso espressivo si sposta inesorabilmente sull’aria» (MM, 303). E si
aggiunga la filiazione francese dell’Ecuba
e il fatto che Fontenelle fu allievo di Antonio Sacchini, un altro italiano di
Parigi. Con la più grande onestà, Maitan ammette di non aver potuto effettuare
il confronto delle partiture; ma si interroga sulla continuità drammatica
percepita alla lettura del libretto originale, in contrasto con una maggiore
polarizzazione tra aria e recitativo, d’essenza più italiana, nella produzione
del 1812 (MM, 302-303). Diamo allora un’occhiata alle partiture.
*La seconda parte sarà pubblicata da TeclaXXI mer 27 nov 2024
NOTE (a seguire, la foto e la bionota dell'autore)
[1] Nato a Palmi, in Calabria, Manfroce fu allievo di Giacomo
Tritto a Napoli e di Nicola Zingarelli a Roma. Nonostante la breve esistenza,
fu una delle maggiori speranze del rinnovarsi della scena operistica italiana.
In tal campo, ha prodotto, oltre all’Ecuba,
un’Alzira, data a Roma nel 1810. Ha
pure composto un certo numero di cantate e di sinfonie, e musica sacra. La
fonte principale al riguardo è Francesco Florimo che, in entrambe le versioni
della storia musicale di Napoli, ribadisce la propria testimonianza personale:
se non ha conosciuto direttamente Manfroce, poco dopo la morte, venne ammesso
nello stesso Conservatorio della Pietà de’ Turchini, trasferitosi nel Collegio
San Sebastiano, in cui ne era ancora viva la memoria presso compagni di studi e
professori (cfr. Francesco Florimo,
Cenno storico sulla scuola musicale di
Napoli, Napoli, Rocco, 1869, vol. I, p. 638 e Francesco Florimo, La
scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, Napoli, Morano, 1881-1883 [Bologna, Forni, 1969], vol.
III, p. 106, cui rimanderemo in seguito, indicando le sigle FF1 e FF2 seguite
dal numero delle pagine; per la produzione del compositore, cfr. anche Carmelo Neri, Per un
catalogo delle opere di Nicola Manfroce, «Historica», 1 (1970), pp. 3-5).
[2] Cfr. «Monitore delle Due Sicilie», 589 (22 dicembre
1812), citato in Domenico Ferraro,
Nicola Antonio Manfroce. Nella vita e
nell’arte, Cosenza, Pellegrini, 1990, p. 114 (sigla DF).
[3] Cfr. Jeremy
Commons, A Hundred Years of
Italian Opera 1810-1820, London, Opera Rara, 1989, ORCH 103, p. 42 (JC).
[4] La letteratura manfrociana non concorda al
riguardo, poiché Fernando Battaglia parla di quattordici rappresentazioni (cfr.
Fernando Battaglia, Nicola Manfroce e l’Ecuba, in Nicola Antonio Manfroce, Ecuba, Bologna, Bongiovanni, s.d., GB
2119/20–2, p. 5 – sigla FB –, opuscolo allegato alla sola registrazione
esistente dell’opera), Marco Maitan di venti (cfr. Marco Maitan, Nicola
Antonio Manfroce nel suo tempo, Università degli Studi di Roma “La
Sapienza”, 1984-1985, p. 269 – MM –) e Domenico Ferraro di una trentina (DF,
111).
[6] In questa occasione viene dato un nuovo concerto
di brani scelti, poi riproposto in altre città italiane tra il 1978 e il 1981
(FD, 144-145).
[7] Cfr. Nicola Antonio Manfroce, Ecuba, a
cura di Domenico Giannetta, Vibo
Valentia, Edizioni del Conservatorio di Musica Fausto Torrefranca, 2017,
pp. XVIII-592.
[8] ecuba,|tragedia per
musica,|in tre atti.|rappresentata per la prima volta nel real teatro|di s.
carlo nell’inverno dell’anno 1812.|napoli,|dalla tipografia de’ fratelli masi,|[...]; l’edizione originale è bilingue, le pagine
pari sono in francese, le dispari in italiano (hécube,|tragédie
lirique,|en trois actes.|représentée pour la première fois sur le théâtre|royal
de s.charles l’hyver de l’an 1812.|naples,|de la typographie des frères masi,|[…]).
[9] Allievo di Antonio Sacchini, Fontenelle ha prodotto anche cantate,
quartetti per violino e Médée et Jason (1813),
sempre con libretto di Milcent; giornalista e drammaturgo, questi scrive di
rado per la scena lirica.
[10] Il libretto e la
partitura divergono al riguardo; nella sua cronologia, Théodore de Lajarte sembra preferire la seconda
data, poiché indica «5 mai 1800», ma, nel segnalare che il «livret porte, par
erreur, la date du 13 floréal», commette a sua volta un errore di trascrizione
e conferma la stessa data del calendario rivoluzionario: «13 floréal an VIII» (Théodore de Lajarte, Bibliothèque musicale du Théâtre de l’Opéra.
Catalogue historique, chronologique, anecdotique, Paris, Librairie des
bibliophiles, 1878 [Génève, Slatkine, 1969], t. II, p. 15 (TL); il dizionario
enciclopedico Die Musik in Geschichte un
Gegenwart conferma il 5 maggio 1800.
[11] Precedentemente ai
nostri autori, ricordiamo il libretto di Jacopo Durandi per Ignazio Celoniati (1769); nell’Ottocento, le musiche di
scena di Emilios Riadis (1927), di Darius Milhaud (1937) e di Gianfrancesco
Malipiero (1939, questa ripresa e ampliata nel 1941) per la tragedia di
Euripide, l’atto unico di Bruno Rigacci su testo di Vittorio Martino (1951) e
l’opera di Jean Martinon, parole di Serge Moreux (1955-1956), che adatta a
sua volta Euripide; e si aggiunga, quasi alle origini del genere, lo struggente
intervento di Ecuba nella Didone
(1641) di Francesco Cavalli.
[12] Per un quadro del repertorio del periodo, cfr.
anche Il Teatro di San Carlo. La
cronologia 1737-1787, a cura di Carlo
Marinelli Roscioni, Napoli, Guida, 1987, vol. II (CMR); per gli anni
della dominazione francese (1806-1815), è interessante notare la quantità di
soggetti antichi, di derivazione sia mitologica sia storica (pp. 126-146); se
il fenomeno non è nuovo e risale alla fine del secolo precedente, è pur sempre
utile sottolineare questa tendenza in numerosi libretti di ambito
franco-napoletano; sulla questione del neoclassicismo partenopeo e in
particolare negli anni di Manfroce, cfr. ancora Giovanni
Carli Ballola, Presenza e influssi
dell’opera francese nella civiltà melodrammatica della Napoli murattiana: il
«caso» Manfroce, in Musica e cultura
a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo
Bianconi e Renato Bossa,
Firenze, Olschki, 1983, p. 309 (GCB) et MM, 172-173.
[13] Cfr.
hécube,|tragédie-lyrique,|en quatre
actes.|Représentée pour la première fois, sur le|théâtre de la république et des arts,|le 13 Floréal, an
8.|[…]|a paris,|De l’Imprimerie de
ballard, Imprimeur dudit
Théâtre,|[…]|an viii de la république.;
hécube,|tragédie-lyrique,|en trois actes.|Représentée pour la première
fois, sur le|théâtre de la république et
des arts,|le 13 Floréal, an 8.|[…]|a
paris,|De l’Imprimerie de ballard,
Imprimeur dudit Théâtre,|[…]|an viii de
la république.
[14] Cfr.
hécube,|Tragédie-Lyrique, en trois
Actes.|Par Milcent|Mise en Musique […]|Par Granges Fontenelle,|Représentée pour la première fois, sur le
Théâtre des-Arts,|le 15 Floreal, An 8.|[…]|Gravé par Huguet Musicien.|a
paris|Chez l’Auteur […].
[15] Di origini toscane, si trasferisce a Napoli, dove,
tra il 1800 e il 1840, stende una cinquantina di libretti tra cui Elisabetta regina d’Inghilterra (1809) e
Odorardo e Cristina (1810) per
Stefano Pavesi, poi ripresi da Gioacchino Rossini nel 1815 e nel 1819, e,
direttamente per il secondo, Armida
(1817) e Adelaide di Borgogna (1817);
è anche autore dell’Elvida (1826) di
Gaetano Donizetti.
[16] Per la bibliografia più recente, cfr. anche Lorena
Savini, “Hécube”/“Ecuba”: approcci metodologici all'atto
traduttivo, in Nicola Antonio Manfroce e la musica a Napoli tra
Sette e Ottocento. Atti del Convegno internazionale di studi (Palmi 2013),
a cura di Maria Paola Borsetta, Massimo Distilo e Annunziato Pugliese, Vibo Valentia,
Istituto di bibliografia musicale calabrese, 2014, pp. 69-84 e Andrea Chegai, Un caso di mediazione
culturale: da “Hécube” a “Ecuba” (Nicola Manfroce, Napoli 1812), «Studi
musicali», VIII/1 (2017), pp. 105-149.
[17] La fortuna operistica di Polissena è paragonabile
a quella della madre, benché il Settecento le abbia concesso maggior spazio,
soprattutto in Francia: l’incompiuto Achille
et Polyxène (1687) di Jean Galbert de Campistron per Jean-Baptiste Lully; Polyxène et Pyrrhus (1706) di
Jean-Louis-Ignace de La Serre per Pascal Collasse; Polyxène (1763) di Nicolas-René Joliveau per Antoine Dauvergne; Polyxena (1775) di Friedrich Justin
Bertuch per Anton Schweitzer, il cui libretto viene ripreso l’anno seguente da
Ernst Wilhelm Wolf.
[18] Cfr.
Euripide, Hécube, texte établi et traduit par Louis
Méridier, Paris, Les Belles Lettres, 1989, t. II, pp. 161–230 (vv. 953-1295).
[19] Cfr. Euripide,
Les Troyennes, texte établi et
traduit par Léon Parmentier et Henri Grégoire, Paris, Les Belles
Lettres, 1982, t. IV, pp. 1-81 (v. 502).
[20] Cfr.
Virgile, Énéide, texte établi et traduit par Jacques
Perret, Paris, Les Belles Lettres, 1992, t. I, p. 87 (III, 321-324).
[21] Cfr. Ovide, Les Métamorphoses, texte établi et
traduit par Georges Lafaye, Paris,
Les Belles Lettres, 1991, t. III, pp. 69-72 (XIII, 439-532).
[22] Cfr. Apollodorus, I miti greci (Biblioteca), a cura di Paolo Scarpi, traduzione di Maria Grazia Ciani, Milano, Mondadori,
1996 (Fondazione Lorenzo Valla), p. 267 (III, 12, 5) e soprattutto l’Epitome, 5, 23 (p. 373).
[23] Cfr. Seneca, Troades, texte établi et traduit par François-Régis Chaumartin, Paris, Les
Belles Lettres, 2002, t. I, pp. 63-115 (vv. 195-196, 938-944).
[24] Così nel libretto e nella partitura per quanto riguarda l’ortografia; trattandosi dei personaggi dell’opera del 1800, usiamo l’onomastica francese.
CAMILLO FAVERZANI
Ordinario di letteratura italiana (Université Paris 8), Camillo Faverzani anima il seminario
«L’Opéra narrateur» (Laboratoire d’Études Romanes). Autore di numerosi saggi sulla storia del melodramma, collabora con riviste e istituzioni operistiche («L’Avant-scène Opéra», l’Opéra national de Paris). Dirige la collana «Sediziose voci. Studi sul melodramma» (LIM).
Recensisce per Première Loge (https://www.premiereloge-opera.com/).
Complimenti per questo dettagliato saggio, dal quale s'impara moltissimo!
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